Ma quanto son belle le parole italiane?
Lo strano fenomeno dell’Italian Sounding e del gabagool.
La cultura italiana all’estero è talmente ammirata e venerata che, secondo una classifica aggiornata al 2024, è la più influente al mondo.
Un riscontro molto pratico ce l’abbiamo pensando a quanto sia amato tutto ciò che proviene dall’Italia: il cibo in primis, ma anche il vino, il fashion, il design, la letteratura…
E questo “amore” è estremamente radicato ovunque: quando siete stati all’estero avete mai provato a digitare su Google Maps “Italian Restaurant”?
In qualsiasi città ci troviamo, vengono fuori decine di risultati, se non centinaia (con un particolare focus sulla pizza).
Pensate che, proprio per questa dinamica, da uno studio del linguista Vedovelli risulta che la lingua italiana sia la seconda più “visibile” al mondo, subito dopo l’inglese.
Questo fenomeno nasce alla fine del 19° secolo, quando moltissimi italiani sono andati a cercar fortuna fuori dai nostri confini, formando qua e là delle piccole comunità che col tempo si sono espanse e integrate ai nuovi contesti culturali.
Uno dei casi più eclatanti è la comunità italiana a New York, estremamente romanzata nel corso dei decenni, pensate al Padrino, Quei bravi ragazzi, I soprano (tutti principalmente con connotazione mafiosa, ma vabbè…).
Questa esportazione culturale, come dicevo, si è perfettamente integrata nei posti in cui è arrivata in termini di abitudini ma, soprattutto, in termini di linguaggio. Nascono così delle lingue ibride, come ad esempio l’italo-americano.
Ma non solo: il marchio del “made in Italy”, grazie alla storia e alla cultura italiana, all’estero viene percepito come sinonimo di estrema qualità.
Fuori dai nostri confini hanno compreso talmente bene questa percezione che hanno pensato: “ma perché non cominciamo a creare anche noi dei prodotti italiani?”
Letta così non ha senso, è fisicamente impossibile che ciò avvenga.
È stato perciò utilizzato uno stratagemma: i prodotti creati all’estero sono e rimangono esteri, quello che sembra italiano è il nome.
Nasce così il formaggio tedesco Cambozola (una sorta di gorgonzola) o la pasta Sudafricana Bellissimo.
Piccola parentesi: uno degli esempi che mi ha colpito un po’ di anni fa è una scena de I Soprano, in cui uno dei protagonisti dice “bring me the gabagool”.
Gabagool? Ma che cos’è??!
Beh, non è altro che la pronuncia napoletano-americana del “capocollo”. È incredibile l’immenso giro che ha fatto la fonetica della parola.
Comunque, dicevamo: per attirare l’attenzione del consumatore estero che ricerca prodotti italiani, alcune aziende estere decidono di creare nuovi prodotti, rinominandoli con nomi che sembrano italiani.
Questo fenomeno si chiama “Italian Sounding”.
Con Italian Sounding si definisce l’utilizzo su etichette e confezioni di riferimenti geografici, immagini, colori e marchi che evocano l’Italia e alcuni dei suoi prodotti tipici più famosi.
In pratica è un modo per fregare le persone, inducendole a credere che quello che stanno acquistando sia un prodotto italiano, quando di italiano magari non ha proprio niente.
Se da una parte fa ridere vedere il brand “Tuttorosso” che vende passate di pomodori, dall’altra parte si stima che l’Italian Sounding faccia perdere circa 50 miliardi di euro l’anno all’economia italiana, dato che i produttori locali per rimanere competitivi devono abbassare i prezzi e, di conseguenza, la qualità.
Come spesso accade in queste cose, si arriva poi all’estremo.
Chiusa la parentesi gastronomica, dovete sapere che i suoni italiani in realtà piacciono ben oltre il cibo.
Piacciono talmente tanto che nei Paesi Bassi molte mamme stanno decidendo di chiamare i propri figli con dei nomi che sembrano italiani, per avere quella “vena classica italiana”.
È così che vediamo fiorire bambini di nome Milano, Gitano, Auroro, Divano.
Quindi, se in futuro vi capitasse di vedere una persona non italiana che ha un nome che sembra italiano, ora sapete il motivo.
Insomma, la percezione della cultura e delle parole italiane fuori dai nostri confini è incredibilmente positiva e possiamo dire che è un po’ come la Settimana Enigmistica: vanta innumerevoli tentativi di imitazione.
Non sei stanco di prendere decisioni?
Ti alzi la mattina e devi decidere se fare colazione dolce o salata.
Se la fai dolce devi decidere se mangiare dei biscotti o delle fette biscottate.
Ma che biscotti scegli? Gli abbracci o le macine? Quelli col cioccolato o quelli integrali?
E le fette biscottate con la marmellata di fragole o il burro d’arachidi?
E il caffè lo prendi zuccherato? E se sì, con zucchero bianco o di canna?
E il succo oggi lo bevi oppure no? E se sì, succo di pera o succo d’ananas?
Mi è venuta l’ansia solamente a scrivere queste righe, e pensate che tutto questo avviene nella nostra testa ogni giorno, non appena ci alziamo dal letto.
Ecco perché in molti decidono di saltare la colazione… come biasimarli?
A parte gli scherzi, alcuni studi dimostrano che ogni giorno prendiamo circa 226 decisioni solamente riguardo a cosa mangiare.
E, se ampliamo la statistica, il numero complessivo di scelte alle quali ci troviamo di fronte quotidianamente è circa 35mila.
La cosa peggiore? Che ognuna di queste scelte comporterà delle conseguenze positive o negative nelle nostre vite.
Ne siamo consapevoli e, intravedendo scenari negativi, la necessità di dover prendere in continuazione delle scelte ci pesa.
Il fenomeno si chiama “decision fatigue”, ossia l'affaticamento decisionale che ci colpisce a mano a mano che facciamo delle scelte durante la nostra giornata.
Purtroppo c’è poco che possiamo fare: viviamo in un sistema in cui ogni giorno le scelte da prendere sono sempre di più e sempre più complesse.
Mark Zuckerberg e, all’epoca, Steve Jobs avevano provato a risolvere almeno parzialmente questo problema: ogni giorno si vestivano nello stesso modo, evitando così di dedicare risorse mentali alla ricerca dell’outfit.
Per carità, a livello complessivo sapersi già come vestire non fa tutta questa differenza nell’arco di una giornata, però in generale avere le idee chiare su alcune cose “standard” può essere un buon punto di partenza per snellire la grandissima mole di decisioni che ci investe quotidianamente.
Da qualche anno la Corea del Nord ha reso illegali i jeans nel proprio paese.
La motivazione è semplice: volevano evitare di subire l’influsso del mercato consumistico occidentale e, per farlo, hanno eliminato un po’ di roba, tra cui anche i prodotti in jeans provenienti dagli Stati Uniti.
La conseguenza? I jeans sono stati censurati anche nei programmi televisivi e ora nei vari show i protagonisti che li indossano si ritrovano tutte le gambe blurrate.
“Let him cook”
”GOAT”
”Cap”
”Simp”
Ma che significano ste frasi? Un video con un editing molto “giovane” spiega il linguaggio dei “giovani”.
È tutto guys, al prossimo giovedì :)
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Cacchio non era giovedì senza newsletter…
La parte sulle scelte mi ha fatto pensare di quanto ogni giorno siamo davanti ad un bivio e quanto dispendio di energia serva. Incanalarlo al meglio e imparare a gestire il tempo credo sia una abilità veramente necessaria nella nostra vita
E pensare che noi italiani non possiamo più a fare a meno di riempirci la bocca di anglicismi....