Storie di granchi, invidia e salute mentale
Perché l'invidia può essere positiva? E perché la comunicazione della salute mentale può essere un problema?
C’era una volta un imprenditore che guadagnava tantissimi soldi vendendo granchi.
I suoi competitor non capivano come fosse possibile che il suo business andasse così bene mentre il loro fosse mediocre, dato che il prodotto e le modalità di vendita erano apparentemente le stesse.
Così, a un certo punto, gli chiesero quale fosse il suo segreto.
Lui rispose che risparmiava sui costi di produzione, dato che i secchi con cui trasportava i granchi erano senza coperchio.
“Senza coperchio? E non scappano??!”
“No, appena uno prova ad arrampicarsi, gli altri lo tirano giù cercando di scavalcarlo, e il risultato è che alla fine cadono tutti quanti”.
Chiaramente la storia è inventata, ma questo fenomeno viene riflesso anche sulla psicologia umana con il termine “crab mentality”.
Detta brevemente, una persona con la mentalità da granchio cerca costantemente di abbattere le altre persone solo perché vengono considerate migliori di lui, perché hanno raggiunto risultati più alti o perché si possono permettere qualcosa che lui non ha.
“Se non posso averlo io, allora non può averlo nessuno”.
In Australia e in Nuova Zelanda viene utilizzata un’altra metafora molto azzeccata: è la sindrome del papavero alto.
Questo fenomeno sociale comporta il taglio dei fiori che crescono di più, in maniera da farli uniformare a quelli più bassi, facendo sì che questi ultimi non sfigurino e che tutto sembri più ordinato.
La mentalità da granchio e la sindrome del papavero alto fanno parte del nostro modo di vivere da sempre ma negli ultimi decenni si sono accentuate, complice una società iper connessa e ultra competitiva.
Bramiamo il successo ma, al tempo stesso, se non è il nostro ne abbiamo una paura folle.
Un esempio molto calzante che ho provato sulla mia pelle è quando, qualche anno fa, ho cominciato a seguire un creator poco conosciuto con una community su YouTube di poche migliaia di follower.
Ne parlavo bene a tutti i miei amici, dicendo loro di iscriversi al suo canale e di seguire i suoi lavori.
Poi però è esploso, ha raggiunto centinaia di migliaia di iscritti e il mio interesse verso il suo profilo è magicamente svanito. Anzi, a tratti non riuscivo nemmeno più a sopportarlo.
Non so descrivere bene cosa fosse scattato nel mio cervello, non so se fosse gelosia data dal fatto che il creator non fosse più di nicchia ma che ora lo conoscessero tutti, oppure invidia per il meritato successo che stava ricevendo in pochissimo tempo.
La sensazione di invidia che ho provato era umana, solo che il pensiero “se non ce la faccio io, non devi farcela nemmeno tu” è tossico e controproducente.
La prospettiva infatti sarebbe dovuta essere “se tu ce la stai facendo, io devo cercare di capire quali sono i tuoi trucchi e provare a replicarli anche per me”.
Giulio Xhaet nel suo libro “Da Grande” ci spiega come in realtà l’invidia possa essere un motore potentissimo per il miglioramento personale: all’invidia possiamo dare una connotazione negativa (come con la sindrome del papavero alto e della mentalità da granchio), ma possiamo anche decidere di dare una connotazione positiva.
Paragonandoci ai nostri “idoli” in termini positivi l’esito sarebbe win-win: da una parte si riconosce il valore di chi ce la sta facendo, dall’altra si può “rubare” conoscenze e informazioni per migliorare il proprio stato e, magari, raggiungere gli obiettivi che ci si è fissati.
E penso che questo paragone positivo alla fine sia anche l’unico modo per riuscire a farcela, un po’ come i granchi che, se solo collaborassero tra loro, potrebbero finalmente riuscire a scappare dal secchio in cui sono intrappolati.
Sui social si parla di tutto.
Sono un posto dove si racconta la propria quotidianità con o senza filtri, dove ci si sfoga, dove si descrivono aneddoti, pensieri, riflessioni, paure.
Siamo talmente immersi in questa cultura dei contenuti che vedere trattate tematiche anche molto personali è all’ordine del giorno.
Proprio per questo anche parlare di un tema come l’ansia è stato normalizzato, anzi, è diventato un argomento che a livello comunicativo “crea molto engagement”.
I contenuti che parlano di ansia e di salute mentale quindi sono aumentati: se ne trovano sempre più spesso su TikTok, dove vengono trattati in maniera molto personale e di intrattenimento, e su LinkedIn, dove vengono analizzati in riferimento al lavoro e alla quotidianità.
Ed è una cosa positiva: in passato il tema della salute mentale aveva pochissima importanza e, ancora peggio, parlarne non era visto di buon occhio.
Da un po’ di tempo, però, ho come la percezione che il modo con cui se ne parla non sia propriamente d’aiuto: banalizzare e iper-semplificare l’argomento, rendendolo un modo di intrattenere, non sta facendo altro che peggiorare il problema.
Insomma, il fatto che una condizione medica sia diventata un tipo di contenuto è un passo indietro enorme se si vuole cercare di migliorare la situazione.
Ma cosa potrebbe comportare questa comunicazione errata? Le conseguenze possono essere diverse.
Prima di tutto potrebbe suggestionarci: uno studio dimostra come alcune persone, soprattutto le più giovani, siano talmente a contatto con concetti come ansia e benessere mentale che vengono condizionate e credono di avere loro stesse questo problema.
Proprio per questo, vedere tanti contenuti che parlano di salute mentale potrebbe portare a romanticizzare (e addirittura a rendere cool) problematiche che invece avrebbero bisogno di una diagnosi medica.
In secondo luogo potrebbe entrare in gioco il concetto di profezia che si autoavvera: se crediamo di avere un problema, poi è probabile che si realizzi per davvero.
E, se nel contesto di crescita personale può stimolarci a diventare persone migliori (“fake it until you make it“, fai finta di di esserlo finché non lo diventi), se si tratta di salute mentale potrebbe involontariamente avere delle conseguenze gravi.
In ultima battuta potrebbe essere utilizzata come scusa, nel lavoro e nella vita.
“Ho l’ansia, quindi non riesco a chiudere questo progetto“.
“Non faccio questo lavoro per rispetto del mio benessere mentale”.
Sia chiaro, non voglio sminuire i problemi che potrebbero avere le persone, ma dalla narrazione che ho trovato sui social negli ultimi anni ho come l’impressione che il concetto della salute mentale sia stato strumentalizzato anche da chi non ha nessuna diagnosi.
E il rischio è che provochi esattamente l’effetto contrario. Se tutti hanno l’ansia, alla fine non ce l’ha nessuno.
Come nella favola in cui gridavano “al lupo, al lupo”: se il lupo non c’è per davvero si rischia che poi alla gente non interessi più.
I deepfake sono un problema per la democrazia.
I contenuti creati con AI, infatti, sono talmente credibili che gli elettori potrebbero pensare che Trump o Biden abbiano detto certe frasi, quando invece i video sono stati realizzati artificialmente. E sarebbe importante che venissero presi dei provvedimenti, prima che sia troppo tardi: un articolo di Wired approfondisce questa dinamica.“Gay son or thot daughter?”
È una domanda estremamente stupida, ma è diventata virale perché un TikToker l’ha chiesta alle celebrity presenti alla serata dei People's Choice Awards. Le persone poi non sapevano come rispondere, data la natura complicata della domanda.
Il problema più grande di tutta la storia, però, è che la presenza di influencer a questo tipo di eventi è utile solamente per cercare la viralità sui social, a discapito invece di domande di qualità, più profonde e rilevanti.
Mashable quindi si chiede cosa perdiamo quando sostituiamo i giornalisti con i TikToker.
Cosa che mi ha fatto molto ridere: durante la premiazione degli Oscar, nel pubblico c’era anche il cane di Anatomia di una Caduta, che veniva inquadrato in vari momenti mentre “batteva le mani”. Già questo fa ridere, ma fa ancora più ridere scoprire COME faceva a battere le mani.
E infine:
È tutto, ci si vede il prossimo giovedì :)
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La normalizzazione della terapia ha portato molte persone a seguire un percorso, migliorativo, precedentemente non visto di buon occhio per (?) retaggio culturale.
Il problema dell'"internet" odierno è la mancanza di scrupoli che porta a spettacolarizzare ogni argomento, persino la salute mentale, la violenza, il sesso (con tutto che sia lecito, migliaia di persone si stanno arricchendo, o comunque monetizzando, esponendosi in maniera molto rischiosa).
Gira che ti rigira, sarà che sto invecchiando, ma vedo sempre peggio questa "tipologia" di utilizzatori social e content creator, sto per dirlo: servirebbe un regolamento, almeno morale.
Dio, sto invecchiando.
Il problema del parlare di salute mentale sui social e' che, di contro, non se ne parla abbastanza negli ambienti 'istituzionali' come scuole, universita', lavoro, o a livello di media non si trova molto sui classici media considerati 'validi', come TV, radio e giornali. Se si cominciasse a dare piu' spazio a questi argomenti in quelle sedi, si potrebbe provare ad 'educare' le persone facendo uso dell'esperienza e della conoscenza dei professionisti del settore, e non degli influencer/content creators/ticktockers etc.
Perche' va bene che 'purche' se ne parli', ma se poi se ne parla male allora anche no.
Uno spiraglio di luce, in questo senso, negli ultimi anni lo hanno dato moltissimi musicisti; dal suicidio di Chester Bennington nel 2017, il mondo della musica si e' mobilitato tantissimo per sensibilizzare sui temi della salute mentale. Penso a Mike Shinoda, con il suo album 'Post Traumatic', David Draiman, frontman the Disturbed, Papa Roach, Corey Taylor, Selena Gomez, Demi Lovato, Billi Eilish, e la lista continua.
Insomma, penso ci sia speranza.
Grazie per questa newsletter ancora una volta interessante e con molti spunti di riflessione! :)
Miriam