A volte mi sento inutile
Perché ci sentiamo così piccoli davanti a un mondo così complesso.
Ultimamente mi capita spesso di sentirmi inutile.
Non in senso esistenziale, ma nel modo in cui percepisco le mie parole: ogni volta che provo a dire qualcosa mi sembra sempre troppo poco, troppo fragile, troppo irrilevante rispetto alla complessità di quello che ci sta succedendo intorno.
Se spieghi che creare dei meme su delle questioni serie rischia di banalizzarle, come è successo con la sfuriata di Iacchetti, troverai puntualmente qualcuno che stampa la sua faccia e la esibisce nelle manifestazioni.
Se parli di come sia sbagliata la radicalizzazione e di come bisognerebbe abbassare i toni, troverai Trump che dice che lui odia i suoi nemici, e nei commenti migliaia di persone lo sostengono.
Parlando con amici e colleghi, sento che questo malessere è comune: un senso di impotenza, come se qualsiasi cosa provassimo a dire non potesse in alcun modo scalfire il muro di divisioni, di paure e di indifferenza che ci circonda.
È come se le parole si fermassero a metà strada: non arrivano mai davvero a destinazione, vengono inghiottite in un flusso che corre troppo veloce per dare loro spazio. E così finiscono per sembrare inutili, non perché lo siano davvero, ma perché ci sembra che non trovino un terreno che possa accoglierle.
Finiamo quindi a dubitare non solo del peso delle parole, ma anche del loro senso.
Perché parlare, se l’unico effetto visibile è alimentare la confusione generale?
Perché sbattersi per spiegare l’attualità, quando la logica degli algoritmi è che chi grida vince e chi ragiona scompare?
Queste domande non nascono dal nulla, sono il prodotto di un contesto che negli ultimi anni ha reso sempre più fragile il discorso pubblico.
I social hanno trasformato il confronto in uno stadio in cui le parti si scontrano come se fossero tifoserie.
Non importa avere argomenti solidi o mettersi in ascolto, conta mostrare con orgoglio la maglia della propria squadra. È così che il dibattito, da esercizio di comprensione, diventa una dimostrazione di appartenenza: ognuno difende la propria posizione a prescindere dai fatti, come nel calcio si difende la propria squadra anche quando l’arbitro ha fischiato un fallo evidente.
Per me l’esempio concreto ce l’abbiamo avuto con (il già nominato tante volte) Charlie Kirk.
Presentato come paladino del dialogo, le sue apparizioni nei campus in realtà non avevano nulla di dialogico: non entrava nei college per confrontarsi davvero con studenti di idee diverse, ma per ribadire sempre e solo le sue posizioni, senza alcun margine per metterle in discussione. Era un confronto solamente apparente, che serviva più a ripetere all’infinito le sue idee invece che a capire quelle degli altri.
Ed è proprio questo il cuore del problema: lo schema del tifo non lascia spazio al cambiamento. Tutti entrano in campo per dimostrare di avere ragione. E in un mondo così, provare a ricordare che la realtà è più complessa e che esistono zone grigie e sfumature, appare automaticamente debole.
A questa logica si aggiunge il sovraccarico informativo: siamo immersi in un flusso costante di contenuti, opinioni, reazioni, e il risultato paradossale è che ogni parola nuova sembra già vecchia. Più siamo bombardati di voci, più cresce la convinzione che aggiungerne un’altra sia inutile.
È come tentare di parlare in una stanza dove tutti gridano nello stesso momento: anche se hai qualcosa di sensato da dire, non riesci neppure a sentirti, e alla fine smetti di provarci.
Qui poi entra in gioco una parte psicologica. Quando ti esponi più volte senza vederne gli effetti, il cervello impara che quello è fiato sprecato e, un po’ alla volta, capisce che è meglio risparmiare gli sforzi.
È il meccanismo che gli psicologi chiamano impotenza appresa: inizi a pensare che qualsiasi tentativo sia destinato a fallire e col tempo smetti di provarci del tutto. Un lento logoramento che svuota la voglia di intervenire.
E mentre un po’ alla volta andiamo incontro a una sorta di autocensura, intorno a noi il sistema amplifica soprattutto ciò che è distruttivo.
È il bias della negatività: un solo messaggio ostile pesa molto di più di dieci positivi. Il risultato è un paesaggio che sembra molto più cupo e rancoroso di quanto non sia nella vita reale, perché il nostro occhio si concentra solamente sugli scontri, sull’odio e, appunto, sulla negatività.
Se mettiamo insieme tutti questi pezzi il quadro diventa chiaro: ci sono fazioni sempre più contrapposte, incapaci di parlarsi davvero, che sono immerse in un flusso che amplifica soprattutto la rabbia e la negatività. In mezzo ci siamo noi, che a forza di respirare questo clima ci convinciamo che sia inutile esporci, e così arretriamo un passo alla volta.
Ed è proprio in quel momento che nasce la sensazione più pericolosa: quella di essere soli.
In realtà non lo siamo, ma ci sembra sia così, perché le voci simili alla nostra restano nascoste, coperte da un algoritmo che privilegia solo gli estremi. Ci convinciamo allora che la nostra prospettiva sia minoritaria, quando in realtà è solo meno visibile.
Da qui arriva la tentazione del silenzio. Non come una resa definitiva, ma come forma di protezione: ci diciamo che è meglio non esporci, che tanto non cambia nulla, che non vale la pena rischiare di essere travolti dall’ennesima polemica.
È una scelta comprensibile, quasi istintiva, ma che ha un effetto collaterale enorme: svuota progressivamente lo spazio comune dagli approfondimenti, dai ragionamenti che prevedono sfumature, dalle idee più moderate, e lo lascia in mano a chi comunica solo attraverso lo scontro e la radicalità.
Ed è proprio per questo che le parole, anche quando sembrano inutili, diventano fondamentali. Parlare, in certi momenti, significa resistere: non alla ricerca di una vittoria immediata, ma per impedire che il discorso si chiuda del tutto.
Ogni volta che scegliamo di articolare un pensiero con calma, ogni volta che proviamo a restituire complessità in un contesto che preferisce slogan e semplificazioni, stiamo affermando che esiste ancora un altro modo di stare nello spazio pubblico. Certo, è un atto minuscolo, spesso invisibile, ma proprio per questo prezioso.
Il problema, almeno dal mio punto di vista, è che ci siamo abituati a misurare i risultati con la bilancia sbagliata. Pensiamo che abbiano valore solo se producono subito reazioni, numeri, visibilità. E allora finiamo per confondere la risonanza immediata con il significato reale, come se un contenuto valesse solo se virale.
Il bello, invece, è che molte parole lavorano in silenzio, sedimentano, scavano piano, riaffiorano dopo mesi in un pensiero, in un gesto che nessun algoritmo saprà mai misurare.
Forse il compito, oggi, è proprio questo: non lasciarci ingannare dall’illusione che ciò che non si vede subito sia privo di effetto.
Albert Camus diceva: “Il vero significato della vita è piantare alberi all’ombra dei quali non ci si aspetta di sedersi”.
Le parole sono questo: semi che lasciamo andare senza sapere se, quando e dove cresceranno. E se gli algoritmi continueranno a preferire chi fa più rumore, pazienza. Noi dobbiamo continuare a metterle in circolo, perché senza parole diverse lo spazio rischia di diventare ancora più radicalizzato.
Non dobbiamo avere la pretesa di cambiare tutto in un colpo. Ogni parola che aggiunge un po’ di complessità, ogni messaggio che apre un dubbio o rompe un coro, contribuisce a fare bene e a ricordare che c’è ancora qualcuno disposto a ragionare e a mettersi in discussione.
E, in tempi come questi, è già una piccola vittoria.
Forza, non smettiamo.
Ti riporto questa cosa che ho letto di recente:
“Mio nonno diceva sempre: “E Magda Goebbels faceva un ottimo strudel”.
Per anni non ho mai capito cosa volesse dire.
Poi, dopo la sua morte, mia nonna mi spiegò l’origine della frase: prima della Seconda Guerra Mondiale, una rivista pubblicò un’intervista a Magda Goebbels (la moglie del braccio destro di Hitler) in cui, oltre a parlare di lei, veniva condivisa anche la sua ricetta dello strudel.
Mio nonno, che odiava i nazisti con tutto se stesso, vide quell’articolo come un esempio lampante di come i media possano addolcire e ripulire l’immagine di persone terribili, presentandole sotto una luce simpatica o “normale”.
Così aveva fatto sua quella frase.
Ogni volta che qualcuno cercava di minimizzare le azioni orribili di una persona, puntando invece sulle cose positive o secondarie, lui quindi tagliava corto con un ironico: “Sì, e Magda Goebbels faceva un ottimo strudel”.”
È tutto anche per oggi, al prossimo giovedì :)
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Grazie Mattia , uno dei post più veri che hai scritto
È vero, non dobbiamo smettere di prendere spazio grazie alle nostre parole ragionate.