È ufficiale, la parola dell’anno dell’Oxford Dictionary è brain rot.
Il brain rot viene definito come il deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona, a causa di un consumo eccessivo di contenuti banali, poco stimolanti e di bassa qualità.
La faccio ancora più semplice: a furia di guardare contenuti inutili, siamo diventati scemi.
La parola in realtà non è recente, l’origine del termine infatti risale al 1854 in cui, tale Henry Thoreau, criticava la tendenza della società a privilegiare idee semplici e immediate rispetto a quelle complesse, intravedendo una sorta di declino intellettuale.
Un’osservazione ai limiti del profetico: il brain rot da lui descritto è esattamente l’accusa che viene mossa verso gli attuali contenuti digitali, superficiali e ripetitivi.
“L’Inghilterra si sforza di prevenire il “marcimento” delle patate, ma perché non prova a prevenire anche il “marcimento” del cervello, che è tanto più diffuso e mortale?”, si chiese Thoreau 170 anni fa.
Certo, il 1854 di Thoreau è molto lontano da noi, e l’accezione che oggi viene data al brain rot esplode solo nel 2020, durante la pandemia.
Ovviamente in quel momento storico era inevitabile: le persone costrette a casa hanno cominciato a consumare contenuti come mai prima di allora, innescando un meccanismo le cui conseguenze cominciano a essere visibili solo oggi.
In quel periodo lo scrolling infinito dei social raggiunge livelli mai visti prima, consolidandosi come un’abitudine nella routine delle persone.
Ed è qui che entra in gioco la merdificazione dei contenuti, precisamente dalla convergenza di due fattori: algoritmi e facilità nel creare contenuti.
Da una parte abbiamo, come sempre, gli algoritmi: il loro scopo non è “far felice” l’utente, ma è quello di farlo rimanere il più a lungo possibile sulla piattaforma. Proprio per questo non viene premiata la qualità di un contenuto, ma la sua capacità di generare engagement, tra like, commenti e condivisioni.
Ed ecco allora che i video “Skibidi Toilet”, in cui c’è letteralmente una testa che esce dalla tazza di un water, diventano uno dei tormentoni più seguiti.
Sono dei video scemi, surreali, imprevedibili, assurdi… coinvolgono l’utente senza dargli nulla a livello di contenuto ma ipnotizzando la sua attenzione diventando irresistibilmente virali.
Dall’altra parte abbiamo la crescente accessibilità nel creare contenuti.
Ora infatti, grazie anche al supporto dell’intelligenza artificiale generativa e in generale ad app sempre più avanzate, tutti possiamo creare contenuti. Da una parte è un bene, dall’altra questa democratizzazione del contenuto ha delineato una crescita esponenziale del materiale che c’è in rete, sempre più scemo, sempre più assurdo, e sempre più vuoto.
Il problema però non è solo di chi crea, ma anche di chi fruisce.
Andiamo per gradi: ogni volta che ci immergiamo nella nostra realtà digitale sembra quasi che ci protegga dal mondo esterno, e ci trascina in una sorta di realtà parallela che ci fa dissociare dalla vita reale almeno per qualche minuto.
I contenuti brain rot li vedo proprio così: sono una via di fuga rapida da una realtà che può essere asfissiante, sono la risposta semplice a qualcosa di complesso.
E il problema sta proprio in questa semplicità: consumare materiale banale riduce la nostra capacità di apprezzare contenuti più complessi o impegnativi, in un ciclo auto-alimentante in cui i contenuti di qualità vengono marginalizzati perché richiedono troppo sforzo cognitivo (come per esempio scrivere questa frase, ora sono sfinito).
Con una metafora molto semplice possiamo rappresentare il brain rot come un fast food. È un cibo che non nutre, che mangiamo, ci rende felici sul momento ma poi ci fa sentire ancora più vuoti e alienati.
Il nostro cervello in tutto questo gioca un ruolo fondamentale.
Il brain rot infatti affonda le sue radici in profondi meccanismi psicologici, amplificati dall’architettura stessa delle piattaforme digitali.
Oltre all’effetto che gli algoritmi hanno sulla nostra attenzione, quindi, ci sono altri due fenomeni che influiscono.
Da una parte c’è la FOMO, ovvero la paura di perderci qualcosa di importante.
Questa sensazione è estremamente accentuata sui social, in cui “domani è già troppo tardi”, in cui le storie scadono, in cui i trend si esauriscono, in cui il bisogno di controllare, commentare e partecipare diventa compulsivo e quasi totalizzante.
Dall’altra c’è l’effetto Zeigarnik, fenomeno che spinge il cervello a ricordare più intensamente i compiti incompleti.
Ogni notifica viene percepita come un "compito aperto" che il nostro cervello desidera chiudere, e secondo voi i social non lo sanno? È proprio per questo che ci mandano gli alert di tornare nell’app e vedere cosa ci siamo persi, oppure ci bombardano di notifiche inutili solamente per mantenere costantemente attivo il nostro interesse.
Ve lo dico francamente, per me la via d’uscita è sempre più lontana: nonostante la consapevolezza di ciò che succede, è difficile sfuggire a qualcosa che è creato APPOSITAMENTE per far leva sulle nostre debolezze.
L’ideale infatti sarebbe ripensare i design delle piattaforme, mettendo al centro non tanto l’engagement, ma il benessere dell’utente.
Soluzione che ovviamente andrebbe contro gli interessi delle piattaforme stesse e, di conseguenza, a meno che non venga dall’alto il cambiamento è impossibile.
Brain rot quindi non è solo la parola dell’anno, ma è una sorta di monito che prova a metterci in guardia da un appiattimento intellettuale sempre più incombente, ed è un invito a ripensare il nostro rapporto con i contenuti digitali.
Siamo disposti a sacrificare contenuti mordi e fuggi per abbracciare invece contenuti che ci possono lasciare veramente qualcosa, anche se richiedono più sforzo per essere fruiti?
Possiamo sfruttare la potenza del digitale senza lasciare che sia lei a sfruttare noi?
Diventare gay guardando i Simpson? È possibile.
Uno YouTuber ci racconta la presenza dei personaggi gay nei cartoni animati occidentali, principalmente nei Simpson, ed esplora la loro evoluzione nella storia, affrontando anche il contesto culturale americano nel tempo. Ma soprattutto parla di come lui sia stato influenzato.
Ci pensate mai a quanti video ci sono su YouTube con 0 visualizzazioni e che nessuno probabilmente vedrà mai?
“Tra il 2009 e il 2012, gli iPhone avevano un pulsante integrato “Invia a YouTube” e molti di questi caricamenti mantenevano il nome predefinito IMG_XXXX, creando una sorta di capsula del tempo che mostra momenti di vita senza i filtri a cui siamo abituati oggi”.
Riley Walz ha creato un bot che ha raccolto 5 milioni di questi video e su questo sito li potete vedere in ordine casuale.
Per quanto sia un Edamame diverso dal solito, vedere questi video mi ha dato una sensazione di nostalgia e di “intimità” che su Internet non trovavo da tempo.
Era da 8 mesi che aspettavo di fare un contenuto sul brain rot, finalmente c’è stata un’occasione valida!
Anche per questo giovedì è tutto, ci sentiamo la prossima settimana :)
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In mega ritardo ma letta anche questa. Sono sempre più preoccupato di questa tendenza ma dall’altra parte leggere questi contenuti mi aiuta a capire cosa posso fare per evitare i contenuti da brain rot. Grazie Mattia