Hai mai cercato il tuo nome su Google?
Dai, non fare il timido, so che almeno una volta l’hai fatto.
Se hai mai cercato il tuo nome su Google ciò che ti è venuto fuori è la tua digital footprint, ossia la tua impronta digitale sul web.
Potrebbero essere articoli con il tuo nome o quello della tua startup/azienda, oppure dei post che hai scritto, oppure banalmente i tuoi profili social.
Tutto ciò che hai fatto online è la tua digital footprint, che potrebbe incidere sulla tua vita in infiniti modi diversi.
Venendo dal mondo della content creation, in cui l’obiettivo principale è farsi vedere e conoscere il più possibile, mi hanno sempre detto che “se scrivi il tuo nome su Google e il primo risultato sei tu, o sei fortunato perché hai un nome unico, oppure stai facendo un buon lavoro sui social”.
Ed è vero: banalmente vorrei che questa newsletter fosse letta da sempre più persone. Quindi, il giorno che digiterò su Google “Edamame” e il completamente automatico suggerirà “Edamame Mattia Marangon” invece di qualche sushi in zona, vorrà dire che il progetto starà volando.
Anche per un’azienda questa cosa è fondamentale, anzi, moltissime aziende pagano perché il primo risultato su Google sia la homepage del loro sito.
Questa però è una medaglia a due facce.
Capita a volte (e aggiungerei anche per fortuna) che ciò che abbiamo scritto e pubblicato anni prima non ci rispecchi più.
È normale, anzi, è fondamentale, perché significa che siamo cambiati, cresciuti, maturati.
Nonostante questo nostro cambiamento in positivo, però, quei post rimangono.
Ecco, io sono del 1995, nato a cavallo tra la generazione Millennial e Gen Z, quindi ho visto com’era il mondo prima dei social, per poi venirne completamente travolto.
Infatti, il mio profilo Facebook adolescenziale è stato saggiamente archiviato 7/8 anni fa per nascondere i post tremendi condivisi nel 2010.
Ma pensate a un ragazzino più giovane, nato in un contesto in cui l’influenza dei social network è talmente profonda che la sua vita ha sempre gravitato completamente attorno a quello.
Da una parte gli manca quella consapevolezza di com’era il mondo prima dei social, dall’altra tendenzialmente non sa dove tracciare la linea tra cosa pubblicare e cosa no, dato che per lui questa vita virtuale è la “normalità”.
Infatti, se nei primi anni 2000 quando succedeva qualcosa il gossip veniva sparpagliato a voce o al massimo con qualche SMS (mi sento vecchissimo a scrivere questa cosa), negli ultimi 10/15 anni tutto ciò che accadeva veniva principalmente distribuito sui social.
Ignorando il fatto che tutti potessero leggere ciò che veniva scritto.
Questo ha creato una generazione completamente dipendente dalle dinamiche di algoritmi&CO: dipendente nel senso che non riesce a farne a meno, ma anche nel senso che la sua vita dipende proprio da quello che succede sulle varie piattaforme.
È questo il caso di una ragazza che qualche tempo fa era diventata virale perché aveva superato il colloquio di lavoro ma poi, quando gli addetti HR avevano indagato in maniera più approfondita su di lei, l’avevano scartata per ciò che aveva pubblicato online.
È da fare poi un’ulteriore distinzione: se siamo noi a decidere di pubblicare qualcosa che parla di noi stessi si chiama “digital footprint attiva”, se invece qualcun altro pubblica un contenuto col nostro nome o la nostra foto si chiama passiva.
La versione passiva è ciò che succede per esempio ad alcuni bambini che trovo su TikTok, costretti dai genitori a partecipare alle riprese di qualche sketch “comico”.
Quei bambini da una parte avranno per sempre la loro presenza online (che su certi video può anche essere una cosa positiva, ma molti di quelli che ho visto sono imbarazzanti), ma soprattutto ce l’avranno senza il loro consenso.
Cosa ne può sapere un bambino di 6 anni dei social e dell’impatto sul loro futuro?
L’abbiamo visto anche in questi giorni con ciò che è successo con il figlio di Fedez, preso di mira su Twitter. Questa deriva dovrebbe farci riflettere un po’ di volte in più prima di pubblicare qualcosa online, soprattutto se i contenuti riguardano altre persone (minorenni per di più).
In conclusione, quindi, da una parte può essere bello avere una presenza social ed essere trovati su Google (io per esempio ho un intero set fotografico).
Dall’altra parte però ciò che pubblichiamo online deve essere il riflesso del nostro “personaggio”, dei nostri valori, di ciò che pensiamo, perché proprio la nostra percezione online spesso definisce i rapporti che creiamo offline.
Per questo è fondamentale tenere sotto controllo ciò che gira su di noi.
Ne va della nostra reputazione.
Le call uccidono la creatività.
Ebbene sì: il tuo cervello si spegne quando fai call.
Uno studio dell’università di Yale ha dimostrato che la nostra attività cerebrale si abbassa notevolmente quando parliamo in call rispetto a quando lo facciamo di persona.
Questo avviene perché guardare la faccia virtuale di qualcuno stimola molto meno il nostro cervello rispetto a una chiacchierata vis-a-vis.
Addirittura, la Columbia University ha dimostrato come le persone che fanno brainstorming in presenza producano più idee (e migliori) rispetto a quando si è su Zoom.
Inoltre, durante una call c’è anche il rischio di dimenticarsi il microfono acceso e di parlare male dei colleghi. Oppure che il gatto cammini sulla tastiera spegnendo il computer.
A parte gli scherzi, la maggior creatività in presenza è dovuta a una serie di motivi, che mentre si è in call a volte mancano.
Per esempio, degli esperimenti hanno dimostrato che guardare gli oggetti che si ha intorno potrebbe essere uno stimolo per nuove idee. Ciò chiaramente non può avvenire quando si è in call, dato che si tende a concentrarsi sulle facce delle altre persone.
Quindi, le soluzioni per essere più creativi sono due: o si rientra in ufficio o, come faccio io, spengo il video e cammino per la stanza alla caccia di nuove idee.
Guardando TikTok ho scoperto che Barilla ha creato delle playlist su Spotify che durano esattamente il tempo di cottura dei vari tipi di pasta.
“Mixtape spaghetti”?
9 minuti di canzoni che, quando finiscono, vi avvertiranno che dovete spegnere la fiamma e scolare gli spaghetti.
“Moody Day Linguine”?
10 minuti che vi terranno compagnia finché il pranzo non sarà pronto.
Un’attività geniale, a bassissimo costo ma che a livello social spacca.
Questi un po’ di commenti sotto al video, diventato virale:
Ci sentiamo il prossimo giovedì :)
Ah, se c’è qualche tema che vorreste trattassi scrivetemelo pure, nei commenti o anche in privato.
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Ciao! Come ogni settimana leggo molto volentieri la tua newsletter!
Per l'argomento di oggi ti dico, quando ero piccola, facevo un gioco che era cercare i nomi dei miei compagni su google. Era circa il 2005/2006, quando i social non erano così in voga. Quindi quello che trovavo era molto divertente, omonimi di varie età che non avevano nulla a che fare coi miei compagni. Adesso se provo a cercarli, la maggior parte delle volte, li trovo davvero :(
Ho poi un aneddoto, riferito al "rovinare la vita": una mia amica aveva pubblicato un suo disegno, così, per divertimento, ma senza firma. Sto disegno ha fatto il giro del mondo e inspiegabilmente è tornato a lei dopo un sacco di anni. Ha scoperto così che moltissime persone avevano iniziato ad usarlo senza mai darle i crediti. È una cosa di cui si pente tantissimo!
Comunque grazie! Alla prossima settimana (e ti seguo sui social!)
Il passo successivo per rendere salutari le CC? Auricolari nelle orecchie e passeggiata nel parco più vicino (se lavori in Smart). Al riassunto, poi ci pensa l'AI.