“Non si può più dire niente”.
“La dittatura del politicamente corretto”.
Quante volte abbiamo sentito questi slogan negli ultimi anni?
Sono una sorta di grido di battaglia di chi si sente improvvisamente privato del diritto di parlare, di ridere, di scherzare “come una volta”, in un mondo che sarebbe diventato ipersensibile e opprimente.
Secondo questa visione, basta dire una parola sbagliata per essere criticati, attaccati o addirittura “cancellati”.
E allora si inizia a parlare di censura, di libertà di parola in pericolo, di comicità “rovinata”.
Ma siamo sicuri che sia davvero così? Siamo sicuri che oggi non si possa più dire nulla?
Per comprendere davvero cosa sta succedendo, dobbiamo fare un po’ di ingegneria inversa sul passato.
Dobbiamo cioè guardare indietro e chiederci: che cos’era, esattamente, questo “tutto” che si poteva dire?
Negli anni che molti considerano come l’età d’oro della comicità italiana, quelli dei cinepanettoni, delle gag in prima serata, delle barzellette di Berlusconi in tv, nessuno si interrogava troppo sui contenuti. Il modello era semplice: bastava ridere. “Ridere, vogliono ridere, vogliono lacrimare”.
E allora ci si accomodava in sala, o davanti alla televisione, per assistere a sketch e scene in cui le donne venivano ipersessualizzate, gli uomini gay ridotti a macchiette, gli stranieri presi in giro per il loro accento…
La risata non nasceva da situazioni comiche raffinate o da costruzioni narrative intelligenti: nasceva dal fatto che si prendeva in giro qualcuno, e quel qualcuno era sempre una figura marginale, il cui unico ruolo era fungere da oggetto della battuta.
Boldi e De Sica, maestri indiscussi di questa comicità, hanno saputo codificare e perfezionare la formula come veri e propri alchimisti dello stereotipo: hanno selezionato ingredienti sempre uguali, tipo la donna provocante, l’amico gay, l’arabo sospetto, il nero tonto, il cinese con le L al posto delle R, e li hanno proposti e riproposti in ogni loro film.
E il pubblico rideva, non per cattiveria, ma perché in quegli stereotipi si riconosceva, o meglio: riconosceva la società in cui viveva. Era quella la normalità.
La cosa paradossale, però, era che proprio questa “normalità” impediva che qualcuno si alzasse per dire che quel tipo di comicità stava escludendo una parte della società. Perché, quando sei totalmente immerso in una cultura, fai fatica a vederla per quello che è.
Se tutti intorno a te danno per scontato che l’erba sia blu e tu sei l’unico a dire “guardate che è verde”, vieni preso per pazzo, nonostante tu abbia ragione.
La comicità dell’epoca funzionava così: era talmente condivisa da sembrare oggettiva, incontestabile, naturale. Nessuno si prendeva la briga di mettere in discussione la struttura su cui si reggeva.
E, del resto, non c’erano nemmeno gli strumenti per farlo. Era un’epoca senza social, in cui la televisione era il canale principale (se non l’unico) per accedere al discorso pubblico. E, questo discorso pubblico, era moderato da giornalisti, conduttori, autori che estremamente di rado includevano minoranze, motivo per cui queste ultime non avevano voce in capitolo.
Ecco allora che la vera differenza con oggi non è che “ora ci si offende per tutto”.
Il cambiamento profondo è che, per la prima volta, chi prima non poteva parlare adesso può.
Con i social ha voce, ha spazio, ha strumenti, e può finalmente rispondere. Non è che oggi si è diventati improvvisamente fragili. Il punto è che prima, chi era fragile, non era ascoltato.
Ed è proprio qui che nasce la narrazione del “non si può più dire niente”.
Un’affermazione che sembra voler difendere la libertà di parola, ma che in realtà sta difendendo solo il privilegio di parlare senza essere contraddetti.
Chi si lamenta di non poter più scherzare come una volta, di non poter fare le stesse battute di vent’anni fa, spesso non sta parlando davvero di libertà: sta parlando del fastidio di dover fare i conti con un pubblico più consapevole, più attento, più complesso. Un pubblico che pretende di essere rispettato.
E allora ogni forma di critica viene etichettata come esagerata, ogni tentativo di rendere il discorso pubblico un po’ più inclusivo viene visto come un attacco alla tradizione.
Pensiamo al black humour, una forma di comicità spesso fraintesa, che viene tirata fuori come giustificazione a tutto. Quante volte, davanti a una frase razzista, sessista o discriminatoria, qualcuno si affretta a dire: “Ma è solo black humour, dai”.
Ma il black humour vero non funziona così, non è un salvagente per chi vuole offendere senza subirne le conseguenze. È, al contrario, una forma complessa di comicità che gioca con il tabù, con il dolore, con l’inaccettabile. Ti fa ridere dove pensavi non si potesse, a volte può far male, certo, ma quel dolore vuole spingerti a un cambiamento, un miglioramento. “Con le cattive” vuole farti uscire dal tuo recinto, vuole rompere i dogmi.
Non vuole solo insultare o levare i diritti a qualcuno.
Ricky Gervais, che di black humour ne è il maestro, lo dice in modo molto chiaro: “There are no jokes you can’t tell: it’s all about the context”.
E il contesto, in effetti, è tutto. Chi sei, dove lo dici, a chi lo dici, in che momento lo dici. Una battuta può essere la stessa, ma avere significati opposti a seconda della direzione in cui viene lanciata. Colpire sempre le stesse categorie di persone senza far riflettere, senza critica sociale, senza profondità, non è black humour.
Perché non è vero che non si può più dire niente. È vero invece che non si può più dire qualsiasi cosa senza prendersi la responsabilità.
E questo non è censura. È evoluzione. È crescita. È il minimo sindacale in una società interconnessa.
Chi dice che “non si può più dire niente” non sta denunciando un problema. Sta confessando un limite.
E se tutto questo ti sembra troppo complicato, troppo faticoso, troppo “da pensare”, tranquillo, puoi sempre tornare a goderti le scoregge nei film di Boldi e De Sica.
Lì “era tutto più semplice”.
È successa una cosa molto divertente su Twitter: c'è stato uno scontro tra Elon Musk e la pagina ufficiale di Assassin's Creed.
Assassin’s Creed è una saga videoludica che racconta la storia dal punto di vista degli outsider che combattono contro il potere. Insomma, se c’è una saga che ha fatto della resistenza una bandiera, è proprio questa.
Da qualche giorno, però, se ne sta parlando più del solito per via dell’uscita del nuovo titolo del franchise, ambientato nel Giappone feudale.
Scelta suggestiva e affascinante, ma a far discutere è stato il protagonista che secondo molti era fuori contesto: un samurai nero.
Riprendendo il discorso di prima, in molti hanno gridato allo scandalo. “È woke”, “è propaganda”, “è revisionismo”.
Chiaramente queste persone ignoravano il fatto che Yasuke, questo il suo nome, fosse realmente esistito nel Giappone del XVI secolo.
Ma a questi commentatori non interessa conoscere la verità o approfondire la storia: quello che vogliono è solo un motivo per protestare ogni volta che qualcuno osa portare una narrazione diversa da quella che li fa sentire comodi.
Ed ecco allora che arriva anche Elon Musk, paladino di questa narrazione, che twitta “Il gioco è terribile”, alimentando di fatto le polemiche e sostenendo la sua battaglia contro un mondo più inclusivo.
Ma qui il colpo di scena: la pagina ufficiale di Assassin’s Creed risponde con una frase che è già diventata leggenda: “Is that what the guy playing your Path of Exile 2 account told you?”.
Per chi non avesse seguito la vicenda, Elon Musk si è sempre vantato di essere un grande videogiocatore, ma un paio di mesi fa si era scoperto che non era veramente lui a giocare (a questo Path of Exile 2), ma un suo assistente. E poi lui si prendeva i meriti.
"È quello che ti ha detto il tizio che gioca al posto tuo su Path of Exile 2?”.
La risposta è stata una frecciata perfettamente in linea con il brand: Assassin’s Creed è una saga che parla di resistenza, di ribellione contro i poteri forti, di riscrivere la storia da punti di vista scomodi.
E rispondere a chi sfrutta il proprio potere e il proprio megafono digitale per influenzare milioni di persone è l’atto di resistenza più rivoluzionario che ci sia.
In un periodo in cui i brand cercano di esporsi il meno possibile, Assassin’s Creed ha mostrato al mondo, con stile e ironia, cosa significhi prendere una posizione concreta, anche se scomoda.
Mi chiedo solo se Musk abbia capito il tweet. In caso può sempre farselo spiegare dal tizio che gioca al posto suo.
La Disney è riuscita in una missione praticamente impossibile.
Nel nuovo film di Biancaneve è riuscita a mettere tutti d’accordo: l’ha reso talmente “inclusivo” da farlo odiare a ogni singola persona. Qui una video recensione onesta che mi ha fatto molto ridere.
È tutto anche per questa settimana, ci sentiamo il prossimo giovedì :)
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Bravo Mattia nonno Lino
Non ricordo chi disse "non è che non si può dire più niente, è che non sapete farlo", parafrasando.
Dobbiamo solo attendere che la marea old-generation si levi di torno, sono abbastanza convinto che le new generation porteranno una maggior cultura in tutto ciò, o almeno lo spero.
Ciao Matti, buon weekend!