C’è un angolo di YouTube in cui la virilità si misura in chili di panca piana, le emozioni sono considerate un lusso da femminucce e la donna ideale deve cucinare, pulire e starsene zitta.
Già, sto parlando del Podcasterone.
Il nome è già parecchio didascalico: è un podcast italiano, diventato virale di recente, che parla di temi come la mascolinità, i rapporti con le donne, l’autorità maschile. Ma lo fa in modo diretto, estremamente provocatorio, adottando una visione del mondo semplificata e rigidamente binaria.
Ogni episodio sembra un esperimento antropologico andato storto, una chiacchierata tra cavernicoli che rifiutano ogni complessità, una conversazione quasi caricaturale, nel senso che le dichiarazioni sono talmente anacronistiche e tossiche che sembra che il podcast sia ambientato un secolo fa.
“Se porto la colazione a letto alla mia donna sono un finocchio”
“Le pulizie a casa le deve fare la donna, o al massimo la donna delle pulizie. Anche perché tu hai mai sentito “l’uomo delle pulizie”?”
Sono solo un paio delle frasi che hanno fatto scalpore, frasi che non solo fanno rabbrividire per un sessismo e una discriminazione così espliciti, ma svelano un problema decisamente più ampio e profondo.
I due protagonisti, Petar Duper e Flavio Raponi, incarnano alla perfezione la figura del gymbro, termine che nasce dalla fusione di “gym” (palestra) e “bro” (fratello).
Nella sua accezione più neutra, il gymbro è una persona (solitamente un giovane maschio) appassionata di fitness, che fa dell’allenamento e della cura del corpo non solo una pratica abituale, ma una vera e propria identità. È colui che vive la palestra come un luogo sacro, che conta in maniera minuziosa le calorie, che sa tutto sugli integratori, che usa termini come “cheat meal” e cose simili.
C’è anche un aspetto comunitario positivo: il termine “bro” evoca l’idea di fratellanza, supporto reciproco, motivazione condivisa. Il gymbro in pratica è l’amico che ti aiuta a superare i tuoi limiti, che ti sveglia all’alba per andare a correre, che ti manda meme sugli allenamenti. In questo senso, la cultura della palestra ha un impatto assolutamente positivo.
Ma il confine tra passione e ossessione è sottile, e la linea si spezza quando l’allenamento non è più solo uno strumento per stare meglio, ma diventa l’unico metro di valore personale e l’apparenza prende il posto dell’identità.
A quel punto il gymbro smette di essere semplicemente un “tipo da palestra” ma diventa una figura priva di sfumature, in cui l’unico linguaggio ammesso è quello della forza, del risultato, della superiorità.
Questa declinazione tossica porta a una forma di iper-mascolinità che premia l’aggressività, ridicolizza la vulnerabilità e guarda con sospetto qualsiasi comportamento non conforme al modello del “maschio dominante”.
È un maschilismo mascherato da autodisciplina, in cui l’estetica è l’unico valore riconosciuto e che non lascia spazio a dubbi, introspezioni, emozioni.
E da qui alla figura del gymcel il passo poi è breve.
Anche gymcel nasce da una fusione: “gym” e “incel” (ossia involuntary celibate, cioè gli uomini che si sentono esclusi dalle relazioni sentimentali e sessuali).
Mentre l’incel classico spesso si presenta come trascurato, il gymcel è esteticamente curato, muscoloso, disciplinato. Ha lavorato duramente sul proprio corpo per raggiungere un ideale, ma si ritrova comunque a vivere sentimenti di esclusione e rifiuto.
Ed è qui che scatta il cortocircuito: se nonostante tutto lo sforzo fisico non si è considerati “desiderabili”, allora il problema non può che essere esterno. Le donne vengono quindi viste come superficiali, incoerenti, “colpevoli”, il risentimento si trasforma in rabbia, e la rabbia in ideologia.
L'identità maschile costruita sullo sforzo, sul sacrificio, sulla disciplina, si sgretola sotto il peso della non corrispondenza tra aspettativa e realtà, ed è qui che il gymcel cerca una comunità in cui legittimare il proprio dolore, non tanto per superarlo, ma per convertirlo in odio.
Ed è proprio questa dinamica che ritroviamo nel Podcasterone.
Il più inquietante dei paradossi è che i due protagonisti del podcast non sono soli, frustrati o reietti: hanno relazioni stabili, compagne, figli. Eppure il tono con cui parlano delle donne trasuda un fastidio insito, un rancore che si manifesta nell’ostentazione del controllo, nella superiorità morale, nella sistematica ridicolizzazione del genere femminile.
Nelle loro parole non vedo solo il classico gymbro che ostenta il proprio stile di vita, ma l’eco latente del gymcel: quella frustrazione nascosta di chi, pur avendo tutto ciò che dovrebbe “garantire” successo relazionale (muscoli, disciplina, relazioni stabili) continua a vedere le donne come un’entità da dominare.
Ecco perché anche loro sono, in qualche modo, gymcel. Non nel senso letterale, ma psicologico, perché la mascolinità che propongono è fondata sul controllo, sulla negazione dell’altro, sulla continua riaffermazione del proprio “valore” attraverso la svalutazione del resto. In pratica, una mascolinità fragile.
Ma l’internet ha reagito: il Podcasterone è stato criticato e ridicolizzato ovunque.
Eppure, come spesso succede, l’indignazione ha fatto anche da cassa di risonanza: il contenuto è diventato virale, raggiungendo anche adolescenti insicuri, uomini in crisi, chi cerca risposte semplici a domande complicate. Ed è qui che diventa pericoloso.
Certi messaggi non hanno bisogno di verità, hanno bisogno solo di insicurezze da intercettare, e quando parlano a chi è fragile o in cerca di identità riescono addirittura a prendere senso. E quindi ora probabilmente c’è qualcuno lì fuori che ha preso seriamente le parole del Podcasterone, facendole sue e un po’ alla volta rendendole parte della propria personalità.
È proprio per questo che la consapevolezza è sempre più fondamentale, per non dare peso a ragionamenti di questo tipo, ma anche per distinguere i contenuti che ci fanno crescere da quelli che invece ci radicalizzano, i gymbro positivi dagli incel.
Perché alla fine, tra una panca piana e una battuta sessista, il rischio è sì di diventare forti, ma al tempo stesso anche pericolosamente vuoti.
“L’americano medio ha 3 amici, ma ne vorrebbe 15”
È con questa osservazione sociologica che Mark Zuckerberg ha presentato uno dei progetti più ambiziosi (e inquietanti) di Meta: creare amici virtuali con l’AI per colmare i vuoti relazionali.
Già, hai capito bene: se hai poche persone con cui parlare e le tue relazioni non sono abbastanza, non ti serve una birra con un amico o una passeggiata al parco. Ti serve un’intelligenza artificiale che ti dica che andrà tutto bene.
O questo almeno secondo Zuck.
Ma facciamo un passo indietro. Siamo di fronte al classico modello Silicon Valley: prima ti creiamo il problema, poi ti vendiamo la soluzione.
Prima iperconnettiamo il mondo, sostituendo le chiacchierate reali con stories, caroselli e cuori. Poi, quando ci accorgiamo che tutto questo ha ridotto drasticamente la qualità delle relazioni umane, ecco che arriva la trovata geniale: venderti un’AI modellata su misura per te, che ti conosce e che ti capisce.
Siamo ufficialmente entrati nell’era della loneliness economy.
Si tratta di un’economia costruita sul vuoto, sul bisogno umano più antico e profondo, ossia quello di comunità, di sentirsi visti e ascoltati. Solo che, invece di farlo con altre persone, lo facciamo con un algoritmo.
La solitudine non è più un’emergenza sociale, è diventata una miniera d’oro per chi ha il coltello dalla parte del manico.
Paradossalmente, più siamo connessi, più desideriamo connessioni reali. Più ci mancano i legami reali, più accettiamo quelli finti. E così, mentre la tecnologia smonta lentamente le nostre reti sociali, ci offre poi una versione simulata di un contatto umano, vendendoci la nostalgia di qualcosa che prima ci ha tolto.
È arrivato il momento di chiederci se vogliamo davvero vivere in un mondo dove, per sentirci meno soli, dobbiamo parlare con un chatbot. La soluzione migliore rimane quindi spegnere lo schermo, uscire di casa, e provare a cercare quei 12 amici che ci mancano nella vita vera.
Perché l’AI può essere utile in tante occasioni, ma non può offrirti una birra. O almeno non ancora.
Ogni specie ha rituali di accoppiamento, anche gli esseri umani, e se questi rituali non vengono compresi e insegnati, le nuove generazioni faticano a relazionarsi e a “formare coppie”.
Un’interessante risposta al perché molto uomini non siano più interessati a ballare con le donne e cosa comporta a livello relazionale, lettura in inglese consigliata.
“E se dopo la morte continuassimo a esistere online?”
Un carosello di VD analizza le implicazioni dei profili social delle persone decedute, e come la tecnologia sta cambiando il nostro rapporto con la morte. Qui il carosello.
È tutto pure per oggi, noi ci sentiamo come sempre il prossimo giovedì :)
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Alla fine, stanno solo scimmiottando quella che, da profano, vedo come politica del "purchè se ne parli" di Trump, o di esponenti politici più vicini a noi. Sfrutti un argomento in maniera becera per far parlare di te e contestualmente raccogli "consensi" da quello strato subumano che viene fomentato sulla base delle proprie insicurezze.
La devo finire, lo so. Ciao Matti, buon weekend
Dietro alla voglia di emergere, dietro l’uso del grottesco per apparire, ci sono concetti e atteggiamenti che non devono essere sdoganati. Circa il catcalling degli alpini, il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, si è esposto minimizzando le molestie segnalate durante il raduno degli Alpini a Rimini, definendo quegli episodi “solo apprezzamenti” normali tra uomini e sminuendo le denunce di oltre 500 segnalazioni raccolte da attiviste femministe. Ha detto frasi come “Siamo maschi, è normale fare apprezzamenti a una bella ragazza” e ha criticato chi parla di violenza, sostenendo che la violenza è un’altra cosa. Dipiazza ha anche definito “gentaglia” le attiviste di Non una di meno che hanno denunciato i fatti.
Questi atteggiamenti vanno azzerati e condannati.
Bisogna creare coltura e non contro cultura.
I miei 5 cents.