Un po’ di anni fa sui social c’era l’abitudine di dire “sono stato zuccato“ quando si veniva bannati.
L’etimologia è molto semplice e mi fa assai ridere: essere zuccati significa subire il potere divino della mano di Mark Zuckerberg che passa e cancella contenuti (o addirittura account).
Questa dinamica ha assolutamente senso: quando dei post oltrepassano determinati criteri è giusto vengano rimossi.
I paletti quindi sono fondamentali: senza di essi i social sarebbero un posto estremamente pericoloso e invivibile per moltissime persone (vedi Twitter).
Il problema sorge però quando questi paletti non sono chiari, quando è possibile fraintenderli, quando l’assistenza umana scarseggia e, nel fortunato caso in cui si riuscisse a contattare qualcuno, esso sarebbe comunque condizionato da bias e pregiudizi.
Proprio per questo la minaccia di “essere zuccati“ è reale e costante per ogni persona che crea contenuti online (non solo su Meta, ma anche su TikTok, su Twitch, su Linkedin…). Inutile dire la gravità del danno quando il profilo cancellato è quello di un’azienda, o comunque di una realtà che coi social ci lavora.
A furia di battere la testa però, negli anni abbiamo imparato (quasi tutti gli utenti) a sviluppare una sensibilità tale da capire come dire qualcosa, cosa è preferibile non dire e cosa invece non dire assolutamente.
Come scrivevo qualche newsletter fa, con grande resilienza siamo riusciti ad adattarci alle linee guida dei vari social, modellando la nostra comunicazione in funzione dei paletti imposti dal Dio algoritmo. Ed essere zuccati molto meno.
Questo però cosa ha comportato? Per spiegarvi le conseguenze vi faccio degli esempi molto pratici.
All’inizio della pandemia, i contenuti che su YouTube contenevano le parole “COVID, pandemia, virus” venivano demonetizzati. Così, i profili degli scienziati o degli esperti del settore che volevano fare informazione, condividere esperienze o in generale parlare di ciò che stava succedendo, non potevano guadagnare dal loro lavoro.
E chi è lo scemo che lavora gratis? A catena, quindi, sempre meno persone competenti ne hanno parlato, favorendo disinformazione e fake news.
Non è paradossale? Proprio in un momento storico in cui c’era un disperato bisogno di informazione, la piattaforma faceva di tutto per favorire l’ignoranza.
Un altro esempio l’abbiamo visto negli ultimi mesi: i post che contenevano le parole “Gaza” o “Palestina” venivano penalizzati dall’algoritmo. Questo ha spinto pagine di informazione e non solo ad attrezzarsi, sostituendo per esempio “Gaza” con “G4z4”, al fine di ovviare il blocco.
Un caso più leggero è avvenuto qualche anno fa su Twitch: quando un videogiocatore inizia un nuovo gioco, in gergo si dice che sta facendo una “blind run”, ossia una “partita alla cieca”. Ecco, Twitch ha deciso di eliminare questa categoria di gioco perché non era rispettosa nei confronti dei ciechi. No, non sto scherzando.
Tutti questi atti di censura, messi in pratica per i motivi più disparati, hanno spinto perciò i creatori di contenuti ad adattarsi.
Qualcosa non si può dire? Cerco un modo differente per dirlo.
Questo fenomeno si chiama algospeak: è la ricerca di termini “sicuri”, non bannabili, spesso in codice, per fare in modo che i contenuti non vengano rimossi, penalizzati o demonetizzati.
È un modo per girare attorno alle regole, trovando modi alternativi per comunicare e continuare ad esistere evitando la zuccata.
Come dice il tweet qui sopra, quello che sta avvenendo è che stiamo modellando il nostro lessico per accontentare un algoritmo che altrimenti ci cancella.
E se lo “zuccaggio” nasce con propositi positivi e di salvaguardia della community, il risultato attuale è che si fa difficoltà a parlare di molti argomenti sensibili, come il sesso, la salute mentale (pensate al tema del suicidio), la guerra e l’informazione in generale.
Non posso dire “è morto”, devo dire “si è arreso”.
Tutto ciò è assurdo, ma ci possiamo fare ben poco, dato che quelli che comandano sono gli algoritmi. E se provi a ribellarti vieni zuccato.
Concludo con una battuta che ho letto mentre facevo ricerca per questo pezzo: gli uomini del futuro che cercheranno di ricostruire la storia penseranno che “demonetizzazione” sia stata una variante di “demonizzazione”.
E come dargli torto.
Nel 2003/04, su una televisione cilena è stata trasmessa la trilogia di Star Wars.
Sappiamo tutti quanto fastidiosi siano gli stacchi pubblicitari che partono a raffica durante la visione di un film in chiaro, così un brand di birra (Cerveza Cristal) ha messo i suoi prodotti direttamente nel film, girando scene fittizie in cui si mostrano le birre. Vi lascio qui un link per farvi capire la genialità.
È stata una mossa talmente geniale che l’agenzia che ha curato la campagna ha vinto il Grand Prix al Cannes International Advertising Festival e qualche settimana fa i video sono diventati virali sui social.
È in corso però anche una causa con Lucasfilm, la casa di produzione di Star Wars, ma questa è un’altra storia.
Di recente il calcio italiano è stato scosso da un episodio di “presunto” razzismo (dico presunto perché la faccenda non è ancora chiara). Nel frattempo però sono giunte proposte di squalifica, sanzioni più severe, ma soprattutto un’idea.
L’idea definitiva, l’idea che batterebbe tutto il razzismo del mondo: Carlo Laudisa, giornalista di punta della Gazzetta dello Sport, propone l’idea di tingere le facce dei giocatori di nero in atto di solidarietà del giocatore offeso.
La blackface, ossia l’atto di colorarsi la faccia di nero, è una pratica che crea stereotipi su uomini e donne nere, sfociando in denigrazione e umiliazione. Pensate un po’ che è andata verso l’estinzione negli anni ‘60, grazie a Martin Luther King che ha denunciato quanto fosse un’attività razzista.
E quindi io non sono un giornalista, ma trovo che chi questa cosa la fa di mestiere dovrebbe almeno avere una conoscenza storica di base e una sensibilità per capire che, certe idee, sono delle cagate.
In molte newsletter vengono riportati i link più cliccati della settimana precedente, invece io voglio dirvi che la mia newsletter recente che ha ricevuto meno click e meno like è quella in cui parlo di Mr.Beast, lo YouTuber più seguito e influente al mondo.
Ho provato ad analizzare i motivi dei pochi click e la conclusione alla quale sono arrivato è: l’Italia è una bolla. Una grandissima parte di italiani non conosce abbastanza bene l’inglese per seguire i video di Mr.Beast, il che lo rende completamente ininfluente per il mercato italiano.
Il pubblico italiano però in realtà ha una grandissima voglia di contenuti video live e non, talmente tanta che attualmente nella top 10 GLOBALE per numero di abbonati su Twitch c’è anche uno streamer italiano (Blur). Se ci pensate è assolutamente incredibile e senza senso, dato che il pubblico italiano è infinitesimale rispetto a quello globale.
Mi sono perso in chiacchiere.
Il punto del discorso è che, esclusa l’Italia (per quello ci sta che il mio articolo avesse ricevuto meno click), Mr.Beast è così rilevante che ha letteralmente creato un modo di intrattenere, ha firmato da poco un contratto di 100milioni con Amazon e nel suo destino probabilmente ci sarà Hollywood. Il tutto partendo da dei video in cameretta. Se volete approfondire la sua storia c’è un lungo articolo di Vox.
E con questi nuovi divisori verdini vi saluto, ci sentiamo il prossimo giovedì :)
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Rispetto alla black face so che anche a Tale e quale non fanno più interpretare cantanti afro americani a persone con la pelle bianca per evitare una sorta di denigrazione. Credo che si debba capire l’intento con cui viene fatto un gesto. In quel caso secondo me é un riproporre anche la fisicità di un artista. Stesso problema dell’accontentare un algoritmo e di salute mentale ne parleremo quando sarà troppo tardi
Bellissima riflessione, mi sono resa conto leggendoti che anche se conosco questo tipo di blocco non avevo mai pensato a quanto in effetti possono pesare nella comunicazione di alcune persone, sopratutto di alcuni argomenti molto importanti.