C’è un suono che sta diventando familiare.
È il rumore dell’applauso di una folla che si esalta quando il loro idolo si spinge oltre, quando supera i limiti.
Ho provato un profondo imbarazzo guardando gli spezzoni della performance di Fabrizio Corona al Teatro Nazionale di Milano, un’esibizione costruita su provocazioni, bestemmie e insulti gratuiti.
Il culmine della serata è stato poi “l’interazione sessuale” con un cartonato di Selvaggia Lucarelli, simbolo di un nemico umiliato in pubblica piazza appositamente per regalare al pubblico un momento di catarsi.
Il pubblico rideva, applaudiva, si esaltava.
E questi applausi stanno diventando sempre di più, sempre più rumorosi, sempre più feroci.
Ma chi è questo pubblico?
L’errore più grande sarebbe pensare che sia un monolite, un gruppo omogeneo di individui uguali tra loro. No, il pubblico di Corona è variegato, stratificato, persino contraddittorio.
Ci sono quelli che lo guardano per il gossip, attratti dal fatto che dove c’è lui c’è casino. Sono gli stessi che divorano i reality show, perché sanno che chi urla più forte, chi litiga di più, chi scatena il dramma, è sempre il più interessante.
Non lo seguono per stima o ammirazione, ma per puro consumo. Guardano i suoi spettacoli, i suoi video, le sue provocazioni con la stessa leggerezza di una scrollata su TikTok. Per loro, il caos è intrattenimento. E lui è il re del caos.
Poi ci sono quelli che lo guardano per FOMO, perché il suo nome rimbalza ovunque. Gli algoritmi dei social glielo mettono davanti, le polemiche lo rendono impossibile da ignorare.
Alcuni di loro lo trovano fastidioso, altri affascinante nella sua sfacciataggine, altri ancora si convincono che forse qualcosa di giusto lo sta dicendo. Indipendentemente dall’opinione, tutte le persone di questo gruppo lo guardano per “rimanere aggiornate”. O questo almeno dicono per giustificarsi.
Non lo amano, non lo odiano, ma lo seguono comunque. E così, senza rendersene conto, diventano parte del fenomeno.
Ma poi c’è anche un terzo gruppo: quelli che non lo seguono per intrattenimento, ma per conferme. Quelli che non vogliono solo ascoltare Corona, ma vogliono riconoscersi in lui.
Ed è qui che il fenomeno assume una sfumatura più inquietante.
Queste persone infatti non sono semplici spettatori: sono uomini.
Sono maschi che non ridono di lui, non ridono con lui: lo ascoltano con attenzione, annuiscono, si specchiano nelle sue parole.
Per loro, ogni provocazione non è solo spettacolo: è una verità che nessuno ha il coraggio di dire, un atto di ribellione contro un mondo che li ha traditi. Cercano in Corona un modello, una guida, una conferma che la loro rabbia è giustificata.
Alcuni si sentono frustrati, schiacciati da una società che non li riconosce, altri si considerano vittime di un sistema che ha perso di vista il valore degli uomini "veri". Sono quelli che parlano di "mascolinità in crisi", che si convincono che questi uomini veri oggi siano perseguitati, ridicolizzati, messi da parte.
E poi ci sono anche quelli che vanno oltre: per loro Corona non è solo un simbolo di resistenza, ma è la prova che l’unico modo per essere rispettati è farsi temere.
Si tratta degli incel.
Gli incel sono uomini che si definiscono "involuntary celibate", ovvero celibi non per scelta, ma perché convinti che siano le donne a negar loro un rapporto.
Questi uomini non riescono ad avere relazioni e, anziché interrogarsi su loro stessi, trasformano questa frustrazione in una teoria complottista sul mondo. Credono che esista un ordine sociale in cui loro sono gli esclusi, vittime di donne crudeli e selettive.
Secondo loro, il mondo si divide in vincitori e perdenti, alfa e beta, e loro sono condannati a stare dalla parte sbagliata. Ma invece di provare a cambiare la propria condizione, preferiscono credere che la colpa sia fuori da loro.
E questa rabbia e questa frustrazione hanno bisogno di essere alimentate, di trovare voci che le legittimino.
Corona, con la sua arroganza ostentata, con il suo modo di sfidare le convenzioni, con la sua aggressività verbale, diventa per loro un punto di riferimento non perché parla direttamente a loro, ma perché il suo atteggiamento è quello che vorrebbero avere.
Perché lui può dire quello che loro non hanno il coraggio di dire. Perché lui può insultare, può bestemmiare, può aggredire, e ha sempre e comunque un pubblico che lo applaude.
E allora, agli occhi di questi uomini, lui diventa l’esempio di ciò che funziona davvero.
Non importa che la sua vita sia stata un susseguirsi di eccessi e fallimenti, non importa che la sua rabbia sia solo il mezzo per rimanere sotto i riflettori.
Quello che conta è l’immagine che proietta: un uomo che non si scusa, che “non perdona”, che impone la propria presenza con la forza perché teme che, senza, nessuno lo noterebbe più.
Ma Fabrizio Corona è solo la versione italiana di un fenomeno molto più ampio: negli Stati Uniti, per esempio, Andrew Tate ha costruito un impero sulla stessa retorica.
Ex kickboxer, imprenditore e influencer, ha trasformato la rabbia maschile in un brand. I suoi messaggi, spesso veicolati in podcast in cui parla a petto nudo, sono semplici: il mondo appartiene ai forti, gli uomini devono dominare, le donne devono essere sottomesse, e chi non riesce a imporsi è destinato a fallire.
Tate non è diventato famoso per caso: il suo successo è il risultato di un sistema mediatico che premia chi riesce a polarizzare, e niente genera più reazioni della frustrazione trasformata in odio.
Il pubblico di Corona non è ancora arrivato a quel livello di organizzazione, ma la traiettoria è chiara. Oggi gli incel applaudono, domani cercheranno nuovi modi per rendere questa rabbia più concreta.
Il rischio è che non si accontentino di vedere un uomo insultare una sagoma di cartone su un palco. Vorranno di più. Vorranno che il loro malcontento abbia conseguenze reali.
Non si tratta più solo di spettacolo, di intrattenimento. Si tratta di un meccanismo che si sta consolidando, di un’onda che cresce e che, prima o poi, cercherà uno sfogo.
E, mentre il teatro si svuota e gli spettatori tornano a casa, oppure dopo aver visto l’ennesimo video di Falsissimo, un ragazzo si sta rendendo conto che lo spettacolo gli ha dato le risposte che cercava.
La sua rabbia ha trovato un senso.
E, forse, la prossima volta non si limiterà più a guardare, ma trasformerà quella rabbia in azione, convinto che sia finalmente arrivato il suo turno.
Un influencer di cucina pubblica il video della preparazione di una torta al cocco.
Poco dopo aver cliccato “pubblica” avviene la magia: nei commenti appaiono improvvisamente tutti gli hater del cocco del mondo.
E se non mi piace il cocco?
E se fossi allergico al cocco?
Come posso sostituire il cocco?
A prima vista sembrano domande innocue, perfino sensate. In fondo, chiedere un’alternativa a un ingrediente può avere una sua logica.
Ma poi ti fermi a pensare: perché mai sentiamo il bisogno di commentare qualcosa che non ci riguarda? Se non ci piace il cocco perché ci soffermiamo e ci indigniamo come se fosse un affronto personale?
La risposta è semplice: abbiamo un problema con l’egocentrismo digitale.
L’algoritmo ci ha abituati a un mondo su misura. Apriamo i social e tutto quello che vediamo sembra sia stato selezionato per compiacerci, per rispecchiare i nostri gusti, le nostre idee, il nostro senso dell’umorismo. È una bolla così raffinata che, quando appare qualcosa che non ci rappresenta, lo viviamo quasi come un bug della realtà.
“Ma come osa questo video esistere se non è stato pensato per me?”.
E qui arriva Francis Bacon a ricordarci che no, questa non è una novità dell’era digitale. Già 400 anni fa parlava dell’Idolo della Caverna, ossia la tendenza umana a interpretare tutto attraverso il filtro della propria esperienza personale.
Non vediamo le cose per come sono, ma per come si incastrano nella nostra storia.
Se ti chiedo di immaginare una colazione tipica, cosa ti viene in mente? Se sei italiano è facile che penserai ai biscotti o al cornetto alla crema e il caffè. Se sei inglese alle uova, salsiccia e fagioli.
Se ti chiedo di immaginare Dio, cosa vedi? La risposta cambierà in base a dove sei nato, a come sei cresciuto e alle tue credenze personali.
Quasi tutto ciò che pensiamo passa attraverso il nostro vissuto. Per questo dovremmo accettare che non tutto deve riguardarci. Non ogni video è per noi, non ogni opinione deve combaciare con la nostra, non ogni esperienza ci deve appartenere.
La torta al cocco non è un affronto personale.
A volte, possiamo semplicemente lasciare che qualcosa esista senza sentirci in dovere di modificarlo e criticarlo.
“Please like me”.
“Per favore, amatemi”, è il titolo di un pezzo di The Onion in cui viene fatta una satira brutale su Elon Musk, vi consiglio la lettura dell’articolo.
Vi siete mai chiesti che altro film era ambientato nello stesso periodo storico del vostro film preferito?
Io no, ma è stato interessante scoprire che Il discorso del re era ambientato storicamente nello stesso anno di uno degli Indiana Jones. Vi consiglio questo video, nelle risposte poi trovate anche la seconda parte.
È tutto per oggi, noi ci sentiamo il prossimo giovedì :)
PS: se la newsletter ti piace metti un cuoricino qui sotto!
Stessa imbarazzante e distopica performance anche alla sua PRIMA al teatro Alfieri di Torino. Io me ne sono andata alla 6sta bestemmia
Questo articolo molto recente sui fratelli Tate e il loro arresto in Romania nel 2022: https://www.letteretj.it/p/i-fratelli-tate-sono-rientrati-negli?r=cv9fc&utm_campaign=post&utm_medium=web Come nel caso di Corona c’entra la criminalità.