Quando passiamo tanto tempo sui social (e abbiamo un minimo di intelligenza e sensibilità), iniziamo a riconoscere certe dinamiche quasi istintivamente.
Sappiamo quando un influencer sta sponsorizzando un prodotto, percepiamo quando un argomento è stato lanciato apposta per generare polemiche e indignazione, intuiamo subito se un post è destinato a diventare virale.
Questa consapevolezza non è innata: si costruisce con anni di scrolling compulsivo, con l’osservazione, con l’esposizione continua ai meccanismi dell’algoritmo.
E proprio dalla capacità di leggere tra le righe e di “capire” i social media sono nati gli edgy.
Gli edgy sono quelli a cui la narrazione ufficiale non interessa, quelli che smontano il mainstream con cinismo e ironia, quelli che si sentono sempre un passo avanti rispetto alla massa.
Sono in pratica quelli che si sentono “fighi” e dicono “non mi interessa la nuova serie Netflix, io guardo solo documentari sperimentali giapponesi degli anni ’50”.
Che poi guardino davvero documentari in bianco e nero non si sa, ma l’importante è lo statement, è dichiarare che loro prendono le distanze dal popolo perché sono superiori.
Gli edgy nel loro rifiuto del mainstream hanno creato una nuova bolla che ha uno stile comunicativo unico, con idoli, linguaggi, dogmi.
Tanto che alla fine si sentono diversi ma rispondono agli stessi meccanismi di qualsiasi altro gruppo. Hanno solo bisogno di una comunicazione più raffinata, più “intelligente”, più adatta alla loro sensibilità cinica.
Ma facciamo subito un esempio, che mi sto perdendo in chiacchiere.
Nel film Deadpool&Wolverine, Deadpool risponde chiaramente alla definizione di edgy: non convenzionale, fuori dalle righe, estremamente volgare, un po’ tiktoker un po’ black bloc.
L'inserimento di un prodotto commerciale nel film quindi avrebbe potuto rappresentare un rischio, poiché avrebbe compromesso quel rapporto di fiducia con il pubblico.
E allora che hanno fatto? Hanno preso in giro il prodotto.
Hanno messo una Honda e l’hanno insultata, ironizzando sullo scarso appeal dell’auto.
Un altro creator che mi fa impazzire con le ADV è Dario Moccia: nei contenuti sponsorizzati prende in giro i brand, così il suo pubblico non gli fa pesare il fatto che stia facendo una marchetta. Ma, nel frattempo, la sta facendo.
L’azienda viene sponsorizzata, i soldi arrivano ai creator, ma tutto è confezionato in modo che l’utente edgy si senta parte dello scherzo, non vittima.
E indovina un po’????
Eh già, tutto ciò può avvenire (e avviene) anche nella politica.
Immagina un miliardario che ha bisogno del supporto del pubblico: i suoi interessi hanno poco a che vedere con la sua audience, come potrebbe convincerli quindi?
Beh, sicuramente non in modo diretto: non funzionerebbe.
Potrebbe però presentarsi come un ribelle, come uno che “prende in giro il sistema” mentre in realtà ne è la massima espressione. Potrebbe usare il linguaggio della controcultura, dell’ironia, del trolling, per far sembrare che tutto quello che fa sia un enorme scherzo.
Ti ricorda qualcosa per caso?
Trump, soprattutto con gli elettori più giovani, durante la campagna elettorale non ha usato solo argomentazioni politiche, ma li ha sedotti con il linguaggio della rete, con i meme, con un atteggiamento da “outsider” che in realtà era perfettamente studiato per parlare a una fetta di pubblico che normalmente non l’avrebbe calcolato.
Così facendo, ha seguito da una parte una comunicazione “classica” rivolta a un pubblico generalista, fatta di slogan e messaggi istituzionali, ma dall’altra ha trasformato il suo discorso in qualcosa di condivisibile, di ironico, di perfetto per diventare virale.
E alla fine, è riuscito a spostare opinioni non solo tra la “gente comune”, ma anche tra quegli utenti più smaliziati, quelli convinti di essere troppo intelligenti per cadere in qualsiasi forma di propaganda.
E se Trump ha giocato una parte della sua partita sugli edgy, usando meme e ironia per conquistare chi si sente troppo intelligente per la propaganda, Elon Musk sta cercando non tanto di far sentire il pubblico più furbo, ma di farlo arrabbiare. E lo conferma il fatto che sia tornato ancora alle cronache per l’incontro con Welcome to Favelas.
Welcome to Favelas è una pagina social su cui vengono pubblicati video e foto di episodi di violenza urbana e di degrado, che spesso vanno virali e generano engagement da paura.
Non ha un pubblico univoco: c’è chi la segue per indignarsi, chi per ridere, chi per sentirsi superiore e chi semplicemente per voyeurismo.
È un mix perfetto di adrenalina, polemica e black humour, che crea una community affiatata proprio perché unita da un certo tipo di contenuti che altrove verrebbero censurati o stigmatizzati.
Ma è proprio qui il punto: una community che condivide e amplifica certi contenuti è il terreno ideale per chi vuole sfruttare il caos come strumento di comunicazione.
Si parte con un post provocatorio, si accende il dibattito, gli utenti si schierano a fianco della pagina e della community (e a fianco di certe idee) e, un post alla volta, si spostano gli equilibri, esattamente come avevo raccontato con la finestra di Overton nella scorsa newsletter.
E proprio per questo un referente di Elon Musk nei giorni scorsi ha incontrato gli amministratori della pagina: per capire come sfruttare questa dinamica a proprio vantaggio.
Pagine come Welcome to Favelas non parlano solamente agli edgy, ma attirano proprio quel pubblico che non si fida dei media tradizionali e che si informa solo attraverso canali alternativi.
È qui che la narrazione può essere modellata: non servono discorsi ufficiali, bastano le immagini giuste, selezionate con cura, per orientare il dibattito senza che nessuno se ne accorga.
Un esempio banalissimo? Se pubblichi ogni giorno video di aggressioni da parte di extracomunitari, nel giro di poco tempo l’idea che il problema della criminalità sia solo legato all’immigrazione diventerà una certezza per chi segue la pagina.
Non perché sia stato detto esplicitamente, ma perché quel tipo di contenuto ha costruito una percezione, spostando il focus solo su un aspetto della realtà.
Questa comunicazione bottom-up, che sembra spontanea e genuina, è in realtà perfetta per indirizzare l’indignazione delle persone.
Non c’è bisogno di manipolare apertamente, basta selezionare cosa rendere virale e cosa ignorare.
E così, mentre credono di essere fuori dal sistema, certi utenti finiscono per amplificare proprio quelle narrazioni che qualcuno vuole far circolare.
Chi sta davvero plasmando l’opinione pubblica infatti non sono i media tradizionali, certamente non i politici con i loro discorsi istituzionali, ma le community online, che nella loro confusione apparente diventano il veicolo perfetto per far passare certe idee senza che nessuno se ne accorga.
E chi muove i fili ha capito una cosa fondamentale: il controllo non si esercita con la censura, ma con la narrazione. Basta scegliere cosa mostrare e cosa no.
E quindi Welcome to Favelas può essere un problema, perché è la dimostrazione che anche il caos, se ben gestito, può diventare un’arma perfetta.
Il tempo che abbiamo è limitato.
A volte ce ne accorgiamo crescendo, quando l’esperienza ci insegna che ogni scelta ha un costo, che ogni porta aperta ne chiude un’altra.
Altre volte lo capiamo con le maniere forti: una perdita improvvisa, una malattia, qualcosa che ci costringe a guardare in faccia la nostra fragilità.
È in questi momenti che le priorità si ridefiniscono, e anche ciò che sembrava lontano diventa urgente.
In questi giorni ho letto la storia di Yousuke Yukimatsu, uno dei DJ più ascoltati al mondo, che però fino a qualche anno fa di mestiere faceva il muratore e la musica era solo un hobby.
Poi un giorno ricevette la diagnosi: un tumore maligno al cervello lo stava portando via.
Lui non ci pensò due volte, mollò il lavoro da manovale e si concentrò solo sulla sua passione, senza esitazioni, senza scuse.
Questa decisione, semplice ma radicale, mi ha fatto riflettere molto.
Perché aspettiamo sempre di trovarci con le spalle al muro per fare ciò che ci rende felici?
Ogni giorno che rimandiamo è un giorno perso, eppure continuiamo a ripeterci “non è il momento”, “ho altre priorità”, “ci penserò più avanti”, come se il tempo fosse infinito.
Scrolliamo i social per ore rimandando i progetti che ci stanno a cuore.
Ci facciamo distrarre da più stimoli di quelli che il nostro cervello può reggere e perdiamo di vista le cose importanti.
La storia di Yousuke è una sorta di sveglia: ci nascondiamo dietro la paura dell’ignoto, del fallimento, del giudizio, ma a cosa serve questa paura se nel frattempo la vita va avanti comunque?
È proprio vero: se dessimo a noi stessi metà del rispetto che diamo alla paura, saremmo estremamente più felici.
La conosci la teoria delle finestre rotte?
Se un edificio ha un vetro rotto, implicitamente sta comunicando che è abbandonato, spingendo le persone ad abusarne, rompere altri vetri, fare graffiti. La stesso teoria può avvenire sui social o sul lavoro, ne parlo in questo carosello.
È tutto guysss, ci sentiamo il prossimo giov :)
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Le community online, o almeno quelle "malevole" stanno davvero orientando il pensiero comune. Vi invito a fare un giro nella sezione commenti dei vari "today", l'agenzia che "vanta" una sezione giornalistica divisa per città "Milano Today", "Roma Today", etc. Lì vi è l'esempio lampante di tutto ciò, di come, con questa modalità, si stia solo lavorando per un dividi et impera delle persone.
Bravo