In questi giorni i miei feed di Twitter e di TikTok sono invasi da due persone: KSI e Michelle Comi.
KSI in America è un VIP: nato come youtuber nel tempo si è dilettato come pugile, come rapper e come imprenditore, creando insieme a Logan Paul la vendutissima bevanda “Prime”.
Michelle Comi è un’influencer diventata rilevante per le sue opinioni controverse raccontate alla Zanzara e per avere idee estremamente polarizzanti, del quale il pubblico non vede l’ora di nutrirsi.
Ma perché mi appaiono?
Per contestualizzare meglio, KSI è un bonaccione seguito da decine di milioni di persone, sempre col sorriso ed estremamente autoironico. Negli anni però la community che si è costruito diciamo che “non lo prende molto seriamente”, e ogni progetto che pubblica viene trattato in maniera decisamente irriverente.
Proprio in questi giorni ha fatto uscire la sua nuova canzone, un brano con sonorità e testo molto “pop”.
Forse troppo pop, tanto che, in pochi minuti, il pubblico cringiato da ciò che aveva sentito ha cominciato una campagna di “derisione“ della canzone.
“Honestly if it had a different beat, different melody, different lyrics, different sound effects, different artist, different theme, different message, and a different genre, it could've gone hard”. Nel momento in cui scrivo, questo commento sotto al video ufficiale ha 320mila like, la canzone solo 230mila.
Sono andati virali anche degli spezzoni in cui KSI è stato invitato in vari podcast e l’host gli diceva in faccia che la canzone faceva schifo ed era cringe.
A leggerla così sembra che sia in atto una maxi campagna di cyberbullismo ma, per come la vedo io e se conosco un minimo il personaggio, questa è tutta un’enorme mossa di marketing.
Lui e Logan Paul non sono nuovi a comunicazioni di questo tipo e, guarda caso, in un frame del video si vede proprio una bottiglietta delle bevanda che hanno creato insieme.
Michelle Comi è da diversi mesi sulla cresta dell’onda: quest’estate aveva annunciato che “cercava un uomo che le pagasse le vacanze“, ha detto che le donne non dovrebbero votare, si è dichiarata a favore del patriarcato e ha detto che odia i bambini, ma potrebbe farne uno quando le sue view caleranno solo per poi pubblicarlo sui social. Ammetto che quest’ultima mi aveva fatto ridere.
In questi giorni si sta parlando di lei più del solito perché aveva aperto una raccolta fondi di 15mila€ per rifarsi il seno… e in meno di 24 ore aveva raggiunto l’obiettivo con donazioni da tutta Italia.
Del caso se ne è parlato ovunque, suscitando l’ira di migliaia di persone.
Persone che non hanno capito però che quella a cui hanno assistito è una furba mossa commerciale, per aumentare la propria visibilità facendo leva su indignazione e provocazione.
Ed è proprio questo che sta accomunando i due protagonisti: l’odio. O meglio, il rage-bait.
Immaginate un pescatore che lancia in acqua il suo amo con il vermicello attaccato, sperando di catturare un pescione.
Ecco, loro sono i pescatori, il vermicello è la rabbia delle persone.
E noi siamo i pesci in questione.
L’odio è uno strumento incredibile per raggiungere la viralità e chi impara a gestirlo e usarlo a proprio piacere può raggiungere numeri da capogiro.
Questo video ci suggerisce di parlare anche di confusion-baiting, ossia contenuti che ci confondono, che ci fanno chiedere se quello che stiamo vedendo sia vero oppure no, ma al tempo stesso questa confusione ci spinge a incazzarci e interagire.
Le due storie in questione quindi sono la dimostrazione che “bene o male basta che se ne parli” rimane uno dei metodo più efficaci.
Sicuramente al momento stanno volando, con ritorni in visibilità, numeri, awareness in generale e probabilmente anche denaro.
Ma funzionerà anche a lungo termine? Chi lo sa.
“Se si prospettasse la possibilità di una guerra nucleare, dovremmo impiantare i codici di lancio nucleare vicino al cuore di un volontario.
Così, se il presidente degli Stati Uniti volesse attivare le armi nucleari, dovrebbe ucciderlo per recuperare i codici”.
Questa era la proposta di Roger Fisher, un saggista esperto di negoziazione e gestione dei conflitti, pubblicata nel 1981.
Il volontario in questione doveva andare in giro con un coltello in mano che poi, nel momento del bisogno, doveva passare al presidente. Per ottenere i codici, poi, il presidente era costretto a uccidere a freddo un essere umano, un innocente, a “spargere del sangue sul tappeto della Casa Bianca”.
Siamo sicuri che avrebbe veramente lanciato i missili?
Solo a pensare di mettersi negli ipotetici panni del presidente vengono i brividi, eppure questa storia ci lascia un grande spunto di riflessione: ci fa rendere conto di quanto concrete siano in realtà le nostre azioni.
È un’improvvisa realizzazione di quanto sia facile “premere un bottone” solo perché è deumanizzato, perché rappresenta l’astrazione dell’azione stessa.
Facilità che sparisce quando ci ritroviamo davanti alle conseguenze reali di ciò che facciamo.
La storia funzionava bene con le armi nucleari, ma è perfetta per i social.
Anche qui troviamo i bottoni, che possono essere “pubblica” o “commenta”, che nello stesso modo descritto prima permettono di rendere astratto il concetto di “essere umano”, facendoci creare una realtà fittizia che però sta solo nella nostra testa.
Fino a quanto contiamo prima di esporci?
Molto probabilmente, se avessimo la stessa persona davanti il nostro comportamento sarebbe estremamente differente.
Sui social tutti abbiamo un grande potere, che spesso sottovalutiamo perché ci sembra di essere delle gocce d’acqua nell’oceano, ma è fondamentale che cominciamo a sentire sulle nostre spalle anche una responsabilità diretta, per non abusare appunto di questo potere.
Ciò che scriviamo impatta la vita delle altre persone, tanto o poco, in maniera positiva o negativa.
Ciò che voleva dimostrare Fisher quindi è più attuale che mai: è un invito a dare un peso anche alla nostra vita online e pensare che, il “sangue sul tappeto” digitale, spesso è doloroso quanto quello nella vita reale.
Se guardiamo un pennarello rosso, il rosso che vediamo è uguale per tutti?
Un interessante video ci spiega la differenza tra fenomeno e noumeno e ci fa un piccolo approfondimento psicologico sulla realtà reale e percepita.
L’arte creata con l’AI è da considerarsi arte?
E la musica creata con l’AI è da considerarsi vera musica?
Come devono comportarsi le piattaforme come YouTube o Spotify a riguardo? Una riflessione la troviamo in questo video.
Mi scuso per la scorsa settimana che avevo fatto casino con i link: quello che avevo inserito sbagliato su Bonolis l’avevo aggiornato nella versione web, ve lo rimetto qua per comodità.
È tutto, al prossimo giovedì :)
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Grazie, molto interessante ciò che proponi, mi aiuta a uscire dalla mia confort zone e a mettere in dubbio certezze che non funzionano più. Grazie!
Ciao Matti, non potevo esimermi dal commentare dato l'argomento!
Davvero siamo arrivati al punto che non ci si rende conto di questa tipologia di mosse di marketing? personalmente trovo evidente il personaggio costruito da Michelle Comi, e va bene, sticazzi, non sono il suo target, ma possibile che ci si debba indignare e arrabbiare per questo?
Quanto è rabbia reale e quanto è indignazione per cavalcare l'onda, a sua volta?
E alla faccia del "Belin che indignazione la Comi", decine, centinaia di persone su Linkedin stanno attuando la stessa tattica con l'argomento smartworking che, al netto dello schieramento, genera comunque un engagement elevatissimo.
Molto bello il tema codici nucleari, fa riflettere davvero. Sempre che si abbia un senno.
Ciao belli, buon weekend!