Al fuoco si deve rispondere con altro fuoco
La diplomazia digitale non esiste più: la nascita del Dark Woke.
La comunicazione online premia chi parla alla pancia delle persone in maniera veloce e immediata.
È anche per questo motivo che i contenuti che vediamo tendono a essere sempre più brevi, semplici e d’impatto: o catturi l’attenzione in un secondo, o vieni ignorato.
TikTok ne è l’esempio perfetto, con video sempre più corti e sempre più catchy.
Ma questa logica si è infiltrata ovunque, trasformando a cascata anche il dibattito politico per esempio: non conta il dialogo ma il meme, non conta la complessità ma la battuta virale.
Trump e Musk lo hanno capito prima di tutti: la politica non si vince con la logica, ma con il trolling, la memificazione e l’incoerenza.
La loro strategia, vista anche sul suolo italico, è efficace perché bypassa il ragionamento e, appunto, parla direttamente alla pancia delle persone: un messaggio semplice, emotivo e brutale, per la maggior parte del pubblico è più potente di un discorso articolato.
È proprio per questo che l’opposizione fa difficoltà: usare analisi, fact-checking e ragionamenti articolati non è efficace.
Ora, però, una fazione del dibattito online ha deciso di cambiare strategia, abbandonando la logica del confronto e cominciando a rispondere ai provocatori con le loro stesse armi.
Ma che significa che stanno usando le stesse armi? Ora ci arriviamo.
Uno dei punti di rottura è arrivato verso la fine di gennaio 2025: Alexandria Ocasio-Cortez, deputata democratica all’opposizione, senza usare mezzi termini dice che Trump è uno stupratore.
Il video viene poi condiviso da un profilo Twitter indignato, nel tentativo di scatenare una reazione contraria, che però lei prontamente reposta scrivendo “Oh, ti ho irritato? Piangi ancora di più”.
La frase era una risposta diretta alle critiche arrivate dai sostenitori di Trump, ma il tono non era quello della classica replica politica: era qualcosa di diverso, più crudo, più aggressivo, che non aveva diplomazia o volontà di chiarire e argomentare.
Era un messaggio scritto per essere tagliente, memetico, facilmente repostabile (contenuto da 18 milioni di views, 500mila like).
Quel tweet probabilmente ha segnato un cambio di passo: un nuovo modo di combattere il dibattito online. Non più sulla difensiva, ma all’attacco.
In questi giorni stiamo assistendo a un altro esempio che ci racconta perfettamente questa dinamica, e la vittima è J.D. Vance, il vice di Trump.
Tutto è iniziato con il suo incontro alla Casa Bianca con Zelensky, durante il quale ha chiesto con aria prepotente se il presidente ucraino avesse mai “detto grazie” per gli aiuti statunitensi.
Vance voleva apparire fermo, patriottico, scettico verso gli sprechi del governo. Ma è proprio qui che Twitter ha deciso di ribaltare la narrazione.
Nel giro di poche ore, il suo volto è stato trasformato in un meme: ogni nuovo contenuto lo mostrava con la faccia sempre più grande, gonfia, deformata.
Anche qui non c’era la volontà di dialogare con l’altra parte, si voleva solo realizzare trasformazioni visive surreali che riducevano Vance a una figura patetica, non tanto per attaccarlo sul personale ma per svuotare di significato ciò che stava dicendo e ciò che rappresentava.
La satira politica esiste da sempre: ridicolizzare i potenti è una pratica antica quanto il potere stesso.
Il cambiamento rispetto al passato però è che oggi la satira non è più appannaggio solo di vignettisti e comici professionisti, ma chiunque può essere un creatore. Basta un minimo di editing, una frase azzeccata e una connessione internet.
E proprio su Twitter questo fenomeno si è normalizzato: negli ultimi anni per esempio Biden è stato il bersaglio perfetto, descritto come un vecchio decrepito da tantissimi utenti, che sfornavano meme su meme.
Era un processo chiaro e studiato: “ripeti a sufficienza un’immagine, una battuta, un concetto, e questo diventa parte della percezione pubblica”.
Ma ora la strategia sta tornando indietro, con il fenomeno che possiamo definire Dark Woke.
Il termine descrive questa tendenza emergente nell’attivismo online: non è più un progressismo che educa e cerca di convincere, ma è un progressismo che trolla e ridicolizza.
Se il woke tradizionale si concentra sull’inclusività e sulla consapevolezza sociale, il Dark Woke sceglie la via dell’ironia aggressiva, del sarcasmo tagliente, della distruzione simbolica dell’avversario.
Se la destra ha reso virale l’immagine di Biden come un nonno confuso, una parte della sinistra ora sta facendo lo stesso con Vance, Musk, Trump.
Non c’è più la volontà di smontare i loro discorsi con argomentazioni, di contrastarli con dati e analisi. Il nuovo obiettivo è renderli ridicoli prima ancora che possano essere ascoltati.
Ed è così che J.D. Vance diventa un bambino smorfioso con un lecca-lecca, una caricatura grottesca che lo condanna a essere ricordato non per le sue parole, ma per la sua immagine deformata priva di credibilità politica.
La domanda però sorge spontanea: cosa significa questo cambiamento per il futuro del dibattito pubblico?
Se la politica diventa una gara a chi riesce a ridicolizzare meglio l’avversario, ci sarà ancora spazio per un dialogo costruttivo?
Forse è troppo tardi per questa domanda.
Il fuoco è divampato da tempo e probabilmente ora l’unico modo per affrontarlo è rispondere con altro fuoco.
Quasi senza accorgercene, ci ritroviamo all’interno di un paradosso “affascinante”.
Per riassumerlo: più tempo trascorriamo connessi online, più aumenta in modo direttamente proporzionale la nostra sensazione di essere esausti e sopraffatti.
Il vero problema però non è solo quanto tempo passiamo connessi, ma il fatto che non ci concediamo mai il lusso di essere davvero scollegati.
Il telefono non è più un oggetto che usiamo, è diventato un’estensione della nostra mente, un ponte costante tra noi e il resto del mondo.
Se ci pensi, è sempre più frequente che ci distraiamo mentre parliamo con qualcuno, che controlliamo le notizie mentre camminiamo per strada, che rispondiamo ai messaggi mentre stiamo facendo altro. Viviamo in una sorta di presente frammentato, dove ogni esperienza viene costantemente interrotta da qualcos’altro.
Ma non si tratta solo di notifiche o messaggi: infatti, uno dei meccanismi più subdoli che ci tiene intrappolati e che amplifica le nostre vulnerabilità digitali è il doomscrolling.
Il doomscrolling non è altro che l’abitudine compulsiva di scorrere notizie negative senza riuscire a fermarsi.
Lo facciamo per informarci, per sentirci preparati, per convincerci che, tenendo d’occhio il disastro, potremo in qualche modo controllarlo.
Ma il cervello non è progettato per gestire un flusso costante di questo tipo: quando leggiamo di crisi, guerre, emergenze climatiche, il nostro sistema nervoso reagisce come se il pericolo fosse fisicamente presente.
I livelli di stress aumentano, l’ansia cresce, il senso di impotenza si rafforza.
Eppure continuiamo a scorrere, come se la prossima notizia potesse offrirci una calma che in realtà non arriverà mai. E così il ciclo si ripete all’infinito, perché il mondo digitale non è costruito per rassicurarci, ma per tenerci incollati allo schermo.
Forse, quindi, più che spegnere i dispositivi dovremmo spegnere questa convinzione che essere sempre aggiornati significhi essere sempre presenti.
Se ci concediamo qualche ora senza notifiche non ci stiamo “perdendo qualcosa”.
Se ci piace fare qualcosa non dobbiamo per forza condividerla e tradurla subito in contenuto.
Il National Day of Unplugging, che cade questo venerdì 7 marzo, è una giornata che ci invita a spezzare anche solo per qualche ora questo flusso ininterrotto. Non per “disintossicarci”, come se la tecnologia fosse una colpa da espiare, ma almeno per farci rendere conto di quanto sia diventata onnipresente nelle nostre vite.
Stare senza social per un po’ di tempo ci farebbe accorgere che, nel silenzio fisico e mentale, la nostra mente ricomincia a pensare in modo diverso. Che certe ansie si dissolvono da sole se non vengono costantemente alimentate da nuove notifiche.
E che, forse, il mondo non ha bisogno di noi ogni minuto della giornata.
Siamo noi ad aver bisogno di ritrovare uno spazio in cui esistere senza essere continuamente distratti e riempiti di negatività.
“Brad Pitt nel film Fight Club aveva un fisico nella media, non era così muscoloso”.
Chiaramente non sono io a pensarlo ma, in effetti, confrontandolo con gli standard che vengono imposti dai film di oggi, il ragionamento torna. Viene spiegato in questo video.
Volevo dare un caloroso benvenuto a tutti i nuovi iscritti!
Per oggi è tutto, noi ci sentiamo come sempre il prossimo giovedì :)
PS: se la newsletter ti piace metti un cuoricino qui sotto!
È un fenomeno interessante e forse un piccolo o grande cambio di paradigma, tuttavia rimango scettico sulla sua reale utilità.
Il “rapist” di AOC mi sembra su un pino diverso rispetto ai meme, il primo è un abbandono del politicamente corretto per arrivare ad una comunicazione diretta e dire, quasi con orgoglio, le cose come stanno. I meme mi sembrano solo puerili e si, ci stanno, ma non li trovo efficaci.
La controparte è professionista dei meme e raccoglie un consenso da questa comunicazione che non raccoglierà l’elettore di AOC. Se è una strategia mirata per togliere entusiasmo all’elettore che segue più i meme delle argomentazioni può essere funzionale, magari da account non ufficiali se ben coordinata.
Credo tuttavia che anche in Italia avremmo bisogno di un ritorno alla competenza, schietta e tagliente, ma articolata e ragionata.
Il ricordo va al dibattito tv tra Prodi e l’allora imbattibile Berlusconi, che ebbe un inatteso vincitore.
Oggi vedo tanto scimmiottare la comunicazione di chi parla alla pancia e dice banalità, temo sia però davvero poco vincente.