Il positivismo tossico c’ha rotto il caz**
La nuova wave dei social è dirti che tutto va sempre e solo bene.
C’è una strana sensazione che da un po’ di tempo mi prende quando entro sui social.
È difficile da descrivere a parole: è una specie di tranquillità artificiale, come quando entri in un centro commerciale e l’aria è profumata, ma sei consapevole che il profumo è finto.
Allo stesso modo, scorro la home e si accavallano tra loro contenuti motivazionali che mi dicono “che va tutto bene”. Che andrà sempre tutto bene.
Vedo scenette in cui personaggi stilizzati festeggiano uno che ha detto che come obiettivo è riuscito “ad alzarsi dal letto”. Grafiche che ti dicono che devi prenderti una pausa anche se non hai fatto niente. Schemini che ti mostrano come non devi essere al 100% ogni giorno. Il tutto condito da faccine sorridenti, stelline scintillanti e cuoricini incoraggianti.
Insomma, la sagra dei post sulla salute mentale, e più vedo contenuti di questo tipo e più mi sembra che dietro ci sia qualcosa di profondamente sbagliato.
Per capire però quale possa essere l’origine del problema, dobbiamo fare un passo indietro e parlare della salute mentale raccontata sui social.
Negli ultimi anni abbiamo visto un’esplosione della terapia online, della divulgazione psicologica “pop” e del linguaggio terapeutico traslato nella comunicazione quotidiana, che hanno permesso di fare passi avanti enormi su tematiche che storicamente sono sempre state ritenute un tabù.
Concetti che un tempo erano marginali, come l’ansia e il burnout, sono emersi al centro della conversazione pubblica, rendendo la salute mentale un tema affrontato con maggiore apertura e consapevolezza.
Questo cambiamento ha spezzato uno stigma antico e radicato: ha permesso di riconoscere che il dolore psichico non è un segnale di debolezza, ma una condizione universale, legittima, affrontabile. Per la prima volta, intere generazioni hanno potuto parlare delle proprie sofferenze e cercare aiuto senza vergogna.
Ma ogni trasformazione, per quanto positiva, porta con sé dei rischi. Uno in particolare è legato alla sovraesposizione.
Nel tempo, l’enorme quantità di contenuti divulgativi, frasi terapeutiche, caroselli rassicuranti e micro-pillole di benessere ha spinto il pubblico verso una sorta di saturazione: tutti dicono la stessa cosa, magari usando parole diverse, ma ogni giorno sempre di più. Per anni. E gli utenti sono costantemente sollecitati da questi post.
Questo ha portato a una condizione nota come sazietà semantica: un fenomeno per cui, a forza di ripetere una parola o una frase, questa perde progressivamente il suo significato e il suo impatto emotivo.
Diversi esperimenti hanno dimostrato che, quando una parola viene ripetuta in modo meccanico e prolungato, il cervello smette di attribuirle un senso. È come se la parola stessa si svuotasse, diventando solo un suono. E di conseguenza la mente, incapace di sostenere la ripetizione, la scollega dalla realtà.
Se ogni giorno, senza una particolare spiegazione o approfondimento, sentiamo termini come “ansia”, “accettazione”, “tossico” e simili, da parole cariche di potere comunicativo diventano un po’ alla volta etichette generiche. La loro ripetizione finisce per intrattenere senza educare, ne banalizza il concetto e, infine, ne annulla il significato.
Il problema, a quel punto, non è soltanto che certe parole smettono di avere un impatto reale, ma che cominciano a deformare lentamente il nostro modo di vedere e vivere le esperienze.
Quando concetti riferiti alla salute mentale vengono ripetuti senza contesto e profondità, diventano formule vuote che non ci aiutano più a comprendere ciò che proviamo, ma diventano un modo per evitare di affrontarlo.
Facciamo un esempio concreto: ti senti in colpa perché non riesci a essere costante con i tuoi obiettivi, come lo studio, l’allenamento o quel progetto che continui a rimandare. Ti capita poi di scorrere i social e leggere cose tipo “La disciplina è tossica quando non rispetta i tuoi tempi interiori” oppure “Se non riesci a essere costante, forse è perché stai seguendo un obiettivo che non è il tuo”.
Queste frasi in un primo momento possono sembrare illuminanti, quasi liberatorie, ma in realtà ti stanno solo creando delle giustificazioni psicologiche. Invece di spingerti a chiederti che cosa ti blocca davvero, ti fanno pensare che magari non è il momento giusto, che forse non è il tuo vero sogno. E ti convinci che mollare sia una forma di consapevolezza.
Oppure può capitare che, dopo aver ricevuto una critica, leggi un post che dice “Non devi cambiare per piacere agli altri. Chi ti ama ti accetta così come sei”. Questa frase, così assoluta, non ti fa esplorare il tuo ruolo in quella dinamica, ma ti spinge ad archiviare tutto come “non mi accetta per quello che sono”. E così resti immobile, da una parte protetto, ma dall’altra anche impermeabile al cambiamento.
Puoi capire che è proprio in questo modo che una narrazione nata con l’intento di dare dignità alla sofferenza, normalizzare la fragilità e farci sentire più liberi di essere noi stessi, alla fine ci fa creare un alibi per non migliorare mai.
È dentro questo contesto che si manifesta il fenomeno della positività tossica.
Non si tratta semplicemente di un invito a “pensare positivo” o a “vedere il lato buono delle cose”, ma di un’intera visione del mondo che impone la serenità come unico stato accettabile.
Ogni emozione difficile viene vista come un problema da risolvere in fretta, ogni momento di disagio come qualcosa che non dovrebbe esserci.
E finiamo per proiettare questa semplificazione sugli altri, perché abbiamo imparato che il nostro modo di essere è sempre valido e ogni nostro stato emotivo è sacro, e di conseguenza ogni attrito diventa automaticamente colpa degli altri.
Ed ecco che quando qualcuno ci fa un’osservazione o ci fa notare qualcosa che non vogliamo sentire, la etichettiamo subito come una persona tossica.
È così che il linguaggio che abbiamo imparato nei caroselli e nei post motivazionali a cui siamo stati sovraesposti ogni giorno per anni smette di essere uno strumento di crescita, e diventa un alibi per non affrontare nulla.
Invece dobbiamo renderci conto che se definiamo come tossico tutto ciò che ci mette in discussione e che non è in linea con ciò che pensiamo, forse a essere tossici in tutta questa storia siamo proprio noi.
Quindi meno positivismo, e più consapevolezza. Ma quella vera.
Una riflessione sull’AI.
Non so se l’hai notato, ma da un po’ di tempo le immagini generate con ChatGPT hanno iniziato ad assumere una tonalità sempre più tendente al giallo caldo.
Non si tratta di una scelta estetica voluta: una teoria piuttosto coerente dice che il fenomeno è dovuto a una “contaminazione” dei dati di training.
Negli ultimi mesi, infatti, il protagonista assoluto delle immagini generate è stato lo stile Ghibli, che ha spinto gli utenti a creare svariate milioni di contenuti di questo tipo. Questo flusso massivo di immagini ha quindi contaminato i dataset.
In altre parole: un trend virale ha finito per alimentare l’AI stessa, radicando la tendenza del giallo. Il risultato è che oggi, anche con prompt neutri, l’output tende comunque verso quei toni caldi.
Questa meccanica non riguarda solo il colore, ma anche il testo, e lo vediamo soprattutto su piattaforme prevalentemente testuali come LinkedIn.
Sempre più post sembrano generati con lo stesso stampo. Struttura identica, tono identico, frasi identiche.
A volte scorrendo il feed ho la nausea, mi sembra di essere rinchiuso in una sorta di esperimento in stile Black Mirror, in cui tutte le persone parlano e scrivono nello stesso modo, gli storytelling impostati uguali, le domande retoriche ricorrenti, l’umorismo banale, i giochi di parole che a volte non funzionano.
Si tratta la maggior parte delle volte di testi scritti da AI, riletti superficialmente e pubblicati senza alcuna revisione critica.
Ma una cosa è palese, o almeno io la percepisco immediatamente: sono contenuti privi di una reale voce umana.
E quello che mi inquieta di più è che ci stiamo abituando. Stiamo cominciando ad accettare che sia normale che tutto abbia lo stesso tono, la stessa forma, lo stesso vuoto.
L’AI non ci sta solo aiutando a produrre contenuti, ma ci sta insegnando a non metterci più nulla di nostro.
In questi giorni mi sono imbattuto in un tweet che confrontava una scena di un film con la sua corrispettiva creazione con AI, accompagnato da un titolo che diceva “gli attori sono in pericolo”. Alludeva al fatto che l’AI ormai genera talmente bene i video che in futuro non serviranno più nemmeno gli attori.
E tecnicamente può anche essere vero: Google ha rilasciato Flow, un nuovo tool che grazie all’AI crea video con tanto di audio che fanno impressione da quanto sono realistici.
Ma una risposta più “alta” l’ho trovata proprio in un tweet in risposta alla provocazione sugli attori: “I tech guys sembrano davvero alieni, nessuno di loro capisce perché esiste l’arte”.
Come se bastasse un’AI a replicare qualcosa di già esistente per creare arte. Come se bastasse un prompt su ChatGPT per creare un testo capace di far breccia in chi legge. Come se bastasse una macchina che ripete cose già esistenti, per creare qualcosa di nuovo che valga la pena essere visto.
Ma l’arte non è ripetizione. L’arte è rischio, intenzione, tensione. È tutto quello che accade tra il primo errore e l’ultima correzione.
E allora forse la vera domanda non è se l’AI possa sostituire gli artisti, ma se noi saremo disposti a rinunciare all’arte per qualcosa che “somiglia” all’arte.
Perché se continuiamo a produrre senza pensare, creando repliche su repliche, finiremo per riempire il mondo di cose all’apparenza scritte e fatte bene, ma che saranno totalmente incapaci di lasciare qualcosa, di colpire davvero, di restare nella memoria di chi le incontra.
Insomma, cose vuote e inutili.
Ecco, invece un modo che apprezzo di parlare di crescita personale è farlo in maniera molto pratica.
Un video condivide “hack” per stare meglio, ma raccontati come se fossero le statistiche di un videogioco. Qui il video in inglese.
Ti salvo la pausa pranzo: sai cosa collega gli eroi dei cartoni Disney, la storia di Gesù Cristo e Freud?
Beh, letteralmente tutto. 151eg, in un video di 30 minuti, si addentra in maniera incredibile all’interno di questo mondo.
Questa newsletter è la numero 100 che pubblico, sono in pratica quasi 2 anni di articoli settimanali.
Grazie a chi mi segue dal primo giorno, a chi mi sostiene settimana dopo settimana, e a chi, in generale, c’è.
Ci sentiamo come sempre il prossimo giovedì :)
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Il refuso nel titolo non me lo meritavo…
Bravo Mattia scrivi molto equilibrato .