La mia paura più grande è distaccarmi dalla realtà
E dovrebbe cominciare a preoccupare un po’ tutti.
Negli ultimi giorni qualcosa mi ha turbato.
È successo che due contenuti pubblicati sul mio profilo Instagram siano usciti dalla mia bolla, raggiungendo oltre 200mila utenti e quindi una platea estremamente eterogenea, lontana da quella a cui sono abituato.
I contenuti in questione erano rispettivamente sul politicamente corretto (in cui raccontavo che sì, si può ancora dire tutto, basta saperlo fare nel modo giusto) e uno sugli incel e sulla violenza di genere. Due temi che avevo affrontato in maniera piuttosto netta, tracciando una linea chiara tra ciò che ritengo giusto o sbagliato, e questa polarizzazione aveva generato un’ondata enorme di dibattiti.
Quello che però mi ha turbato è stato notare che, a voler smentire quello che avevo scritto (quindi difendendo posizioni tipo “voglio dire quello che voglio a chi voglio quando voglio” e “gli incel non sono un problema”), fosse sempre lo stesso tipo di persona: il 99% dei commentatori era maschio ed era bianco.
Il restante 1% era composto da uno che diceva di essere gay e che gli insulti omofobi non gli sembravano un problema. Boh, contento lui.
Ora, io odio generalizzare, e la definizione del “maschio bianco etero bla bla” mi sta altamente sulle palle, ma questo pattern è stato talmente netto da lasciarmi spiazzato.
Perché, tra tutte le persone raggiunte (parliamo di 500mila tra Instagram e LinkedIn), nessuna donna, ripeto, NESSUNA, aveva provato a smentirmi o dire che non era d’accordo?
Ecco, quello è stato il momento in cui ho capito che avevo a che fare con qualcosa di ben più profondo.
La critica più frequente (e in un certo senso più prevedibile) mossa da questo pubblico era principalmente una: “eh ma io non sono così”.
Come se il fatto di non essere “così” automaticamente annullasse il discorso e lo rendesse inutile. Come se l’esperienza personale potesse essere l’unità di misura universale per stabilire cosa esiste e cosa no.
Tralasciando il fatto che usare il proprio vissuto personale come parametro assoluto per valutare la realtà è, tecnicamente, uno dei sintomi più chiari dell’analfabetismo funzionale, il problema è che questa tendenza a guardarsi sempre e solo il proprio giardinetto (“io non sono così, a me non è mai successo, nel mio giro non succede”) sta diventando un modo sempre più radicato di abitare il mondo.
E la cosa più grave è che non si tratta solo di disinteresse: è un disimpegno che potremmo definire quasi ideologico.
È l’idea che se qualcosa non ci riguarda direttamente allora non è rilevante, non è vera o, peggio ancora, non ci deve rompere le scatole.
Ma la verità è che il mondo non finisce dove finisce la nostra esperienza personale. Anzi, è proprio lì che comincia la responsabilità.
I miei post sono stati una piccola ma chiarissima dimostrazione del fenomeno: persone che vivono in posizioni di privilegio hanno negato un problema semplicemente perché non ne hanno mai subìto le conseguenze.
Non perché abbiano approfondito, studiato, ascoltato, ma perché non lo hanno mai vissuto sulla propria pelle e quindi, per loro, automaticamente non esiste.
È un po’ come dire che il riscaldamento globale non esiste perché in casa abbiamo il condizionatore. (Come? Mi state dicendo che esiste chi lo sostiene veramente?? Lol).
È, purtroppo, una cosa che noto sempre più spesso: una tendenza dilagante, sempre più egoista, che ci spinge a disinteressarci di ciò che accade fuori dal nostro perimetro.
Solo che là fuori, nel frattempo, succedono cose. Grandi, urgenti, scomode.
L’intero pianeta è in subbuglio come poche volte nella storia e in molti non si interessano, non si informano, non si domandano “che ruolo voglio avere in questo mondo?”.
C’è chi si scaglia in tutte le battaglie possibili pur di mantenere il proprio status quo, che urla alla censura quando gli si chiede rispetto, che si indigna quando qualcuno è più sensibile di lui.
C’è chi invece dall’altra parte non combatte per niente, magari ha una voce ma non la usa, potrebbe dire qualcosa ma sceglie di non farlo perché ha paura delle critiche, perché non vuole esporsi, perché non vuole finire “in mezzo al casino” e perdere follower.
Ma non serve nemmeno scomodare figure che possono sembrarci lontane, basta guardare il quotidiano.
Quanto è più comodo comprare da siti come Shein o Temu per risparmiare, ma ignorando tutte le conseguenze ambientali ed etiche?
Oppure l’AI: tutti si trasformano in versione Ghibli, ma c’è qualcuno che si chiede cosa ci sia dietro? Quanto inquini questo giochino o il tema della proprietà intellettuale?
Il mio punto è che la consapevolezza non vuol dire “smettere di fare le cose” o “non divertirsi più”.
Vuol dire farsi prima le domande giuste. Vuol dire essere curiosi del mondo e non solo delle cose più comode. Vuol dire avere la giusta empatia per capire anche le situazioni che non ci riguardano. Vuol dire restare connessi non solo con la rete, ma con la realtà.
La mia paura più grande è quindi proprio questa: distaccarmi dalla realtà, perdere il contatto con ciò che succede davvero, convincermi che basta non vedere qualcosa per farla sparire, che basta non parlarne per renderla irrilevante.
Ripensando a quei due post iniziali, ho capito che il problema non era tanto il contenuto, quanto la difficoltà che alcune persone hanno nell’accettare che il mondo non ruoti attorno alla loro esperienza personale, e che esistano verità scomode anche se non le hanno mai vissute sulla loro pelle.
E questo mi aveva turbato, perché per me il digitale dovrebbe essere un mezzo per avvicinarci alla complessità, non per rimuoverla. Dovrebbe servire a farci vedere meglio, non a distorcere tutto fino a farci credere che esista solo ciò che ci riguarda.
E invece viene usato sempre più spesso per far sembrare la realtà più innocua, più digeribile, più conforme alla nostra bolla, e quando qualcosa la rompe ce la prendiamo con chi sta dall’altra parte.
Ma io non voglio diventare uno spettatore passivo, che guarda tutto con distacco per paura di sentire troppo.
Preferisco restare dove le cose succedono davvero, anche quando fanno rumore, anche quando sono scomode, anche quando mi mettono in discussione.
Perché se c’è ancora qualcosa che riesce a turbarmi e a farmi riflettere, allora vuol dire che sono ancora presente. E posso provare, nel mio piccolo, a migliorarlo.
È possibile essere l’uomo più ricco al mondo ma rimanere comunque uno sfigato?
Sì, se ti chiami Elon Musk.
Negli ultimi giorni è diventato virale un video in cui Musk gioca in live a Path of Exile 2 (il suo videogioco preferito) e, nella chat di gioco, appaiono messaggi contro di lui.
“Hai rovinato il paese”
“Tesla sta cadendo a pezzi”
“Non hai veri amici e morirai da solo”
Una sequenza di messaggi brutali, che lui legge nel silenzio quasi surreale della sua diretta.
Nel frattempo nel gioco muore in continuazione tanto che, dopo un po’, mormora che la connessione è saltata e chiude tutto. Un rage quit che non è solo un atto impulsivo da gamer frustrato, ma l'immagine perfetta della frattura tra ciò che Elon Musk voleva essere e ciò che è diventato.
Musk, quando gioca in diretta, non sta semplicemente giocando: sta cercando legittimazione, approvazione, identità.
Non vuole essere solo il CEO di mille aziende, ma il miliardario cool, quello che i giovani idolatrano, che capisce l’ironia del web, che posta meme, che cita Rick & Morty come un utente medio di Reddit.
E per un po’ c’era anche riuscito, raggiungendo quello che è probabilmente il punto più alto di questa narrazione, ossia l’acquisto di Twitter qualche anno fa.
Ma da lì in poi è stato un disastro, tra la gestione stessa di Twitter, la sua deriva politica, fino ad arrivare a pagare qualcuno che giocasse al posto suo mentre lui si vantava di essere il migliore al mondo.
Ed è così che nel tempo la narrazione è cambiata: improvvisamente non era più il miliardario cool, ma un impostore che aveva tradito la fiducia di chi credeva in lui, sotto tutti i punti di vista.
E vede quindi il suo mito sgretolarsi, perdendo ogni giorno consensi fino a diventare una delle figure più odiate sul web.
C’è qualcosa di profondamente filosofico in questa storia. Fa infatti riflettere come l’uomo più ricco del mondo, il più potente, il più visibile, non riesca ad ottenere l’unica cosa che invece desidera davvero: essere accettato.
Alla fine è proprio vero, puoi comprare tutto, tranne la stima degli altri.
In questo periodo delicato, con Ugolize abbiamo collaborato con Factanza per parlare di come donne e uomini vivono in maniera diversa la quotidianità. Sono di parte, ma consiglio la lettura.
È tuttoooooooo! Ci sentiamo il prossimo giovedì :)
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Mi chiedo spesso se sia sano lasciarsi turbare continuamente. Sembra quasi che, a volte, si vada alla ricerca di post, articoli o commenti con il solo scopo di indignarsi, di riflettere con rabbia, di sentirsi dalla parte giusta.
Come se avessi bisogno di arrabbiarmi con qualcuno o qualcosa per dare senso a certe ingiustizie, per cercare risposte a eventi abominevoli e incomprensibili che accadono nel mondo.
Ma mi chiedo anche: ha davvero senso esporsi così tanto, ogni giorno? Non sarebbe meglio, ogni tanto, proteggersi, evitare certi contenuti che finiscono solo per rovinare la giornata?
Dov’è il limite tra l’essere informati e il lasciarsi sopraffare? Quanto è fondamentale conoscere tutto ciò che accade, se questo significa vivere in uno stato costante di turbamento?
Come insegni tu: è proprio quello che cercano di fare i big con il nuovo tipo di informazione.
Bravo Mattia, le tue riflessioni sono molto puntuali e iIlluminanti