L’attivismo social serve ora più che mai
Dopo il referendum hanno detto che non funziona... ma non è così.
I giorni successivi al referendum sono stati segnati da un’ondata di analisi più o meno approfondite.
In tanti hanno cercato di analizzare le cause del fallimento e, come spesso accade in questi casi, si è aperta la caccia ai responsabili.
Una riflessione in particolare ha attirato la mia attenzione: la critica al ruolo dei social e, più precisamente, all’attivismo online.
“Con l’attivismo social non si cambia nulla” ho letto in giro. O con una punta di sarcasmo più esplicita “ininfluencer”.
L’accusa ai social non è nuova, ma la ritengo il modo più facile e immediato per liquidare un fenomeno che, in realtà, dietro nasconde molta più complessità.
Il ragionamento alla base sembra semplice e logico: se milioni di persone hanno visto i contenuti sul referendum ma poi non sono andati a votare, allora quei contenuti sono inutili. Quindi, per estensione, chi li ha prodotti e diffusi ha fallito.
Ma questa lettura si basa su un’idea sbagliata di comunicazione politica e, più in generale, di cambiamento sociale.
Si fonda su un meccanismo causa-effetto lineare che mal si adatta al modo in cui oggi si formano le opinioni, si prendono decisioni e si costruisce ciò che riteniamo degno della nostra attenzione collettiva.
Oggi le trasformazioni culturali non avvengono più secondo sequenze chiare e prevedibili.
Viviamo immersi in una quantità di stimoli informativi continua, che ci fa percepire il mondo in modo frammentato, attraverso scroll compulsivi e immagini rapide.
In questo scenario il ruolo dei social è centrale, perché sono il luogo in cui si aggregano narrazioni, si definiscono le priorità, si orienta il dibattito pubblico.
Per quanto ci piaccia credere che sia uno spazio neutro in cui ci si può costruire un’opinione priva di bias, le varie piattaforme sono una sorta di arena dove ogni giorno si decide cosa è importante e cosa no, cosa sostenere e cosa invece abbassare.
Dire quindi che “l’attivismo social non serve” è fattualmente errato, e significa ignorare completamente la direzione che ha preso la società ormai da un po’ di anni.
Il digitale infatti non è uno strumento accessorio della nostra vita pubblica, è diventato il suo centro.
I social oggi sono, di fatto, la prima fonte di informazione per una fetta sempre crescente della popolazione, soprattutto per le generazioni più giovani: sono il primo luogo in cui si incontra una notizia, in cui si formula un’opinione, in cui si decide se qualcosa “merita attenzione”.
E proprio per questo motivo, liquidare l’attivismo online come “inutile” è un errore profondo.
Non solo perché è ingiusto verso chi, con impegno e responsabilità, cerca ogni giorno di costruire contenuti informati e accessibili, ma soprattutto perché ci impedisce di cogliere il fatto che, proprio senza quei contenuti, il referendum non avrebbe avuto il 30% di votanti (che corrispondono comunque a circa 14 milioni di persone).
Sarebbe passato nell’indifferenza più totale, boicottato dai media tradizionali che hanno lasciato uno spazio assolutamente minuscolo al tema: secondo AGCOM, nell’ultimo mese il TG1 ha dedicato meno di un minuto al giorno ai 5 quesiti e le altre testate Rai ancora meno, con una media dello 0,62% dello spazio informativo. Su Mediaset solo lo 0,42%.
È stato proprio grazie all’attivismo social allora che milioni di persone hanno avuto accesso a informazioni fondamentali: cosa chiedeva ogni quesito, quali erano le posizioni favorevoli o contrarie, come si votava, perché era importante.
Non ha trasformato ogni visualizzazione in un voto, è vero, ma ha permesso che il tema esistesse almeno a livello di consapevolezza diffusa.
L’attivismo online non è mai stato pensato per essere autosufficiente, né per sostituire la politica.
È una sua estensione, una sua traduzione nel linguaggio contemporaneo, e permette di raggiungere persone che altrimenti resterebbero fuori dal discorso pubblico.
Chi crea contenuti social di tipo attivista svolge una funzione di mediazione culturale che un tempo era affidata solo a giornalisti, insegnanti, intellettuali. Oggi, invece, questa responsabilità è distribuita in modo più orizzontale: passa anche attraverso le storie, i post, le spiegazioni in formato reel o carosello.
E non è affatto un caso che i profili che producono contenuti di questo tipo crescano costantemente: per fare un esempio terra-terra, il mio account su Instagram, pur non avendo grandi numeri, aumenta sensibilmente ogni giorno. Questo perché le persone cercano informazioni, vogliono capire, vogliono ampliare il proprio sguardo su temi che i media tradizionali faticano a trattare con chiarezza.
Parlare con leggerezza di “attivismo da divano” significa ignorare che quel divano, oggi, è spesso l’unico luogo accessibile in cui una persona può informarsi, riflettere, iniziare a partecipare.
Il problema quindi non è chi agisce nel digitale, ma l’assenza di un sistema che riesca a connettere questi contenuti a pratiche più strutturate e coerenti sul piano collettivo.
Pensare che l’attivismo online sia inutile perché non produce risultati immediati significa adottare un’idea troppo riduttiva del cambiamento sociale: le trasformazioni culturali non sono mai rapide, sono lente, stratificate, spesso invisibili nel breve termine, fatte di parole che restano nella mente e che si trasformano in riflessioni che maturano anche dopo giorni, mesi, anni.
L’attivismo social serve, non come risposta totale, ma come punto di partenza necessario.
E se vogliamo davvero costruire una società più consapevole, più partecipata, più attenta ai propri diritti e ai suoi conflitti, dobbiamo partire da lì.
Da quello che già esiste, anche se non è perfetto, anche se per ora non è sufficiente.
Ma che è sempre di più l’unico modo per fare la differenza.
Sei triste ogni volta che finisce qualcosa di bello?
C’è una spiegazione psicologica, ma anche una soluzione, tratta direttamente dal filosofo Bergson. Un divulgatore spiega di cosa si tratta.
Stiamo entrando nella fase più pericolosa dell’era Trump: la normalizzazione.
Un video del New York Times racconta un tema di cui spesso ho parlato qui su Edamame, ma attualizzato alle ultime vicende. Visione consigliata, per capire la direzione che stiamo prendendo.
“Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?”
Partendo da questa citazione di Nanni Moretti, un video ci spiega il potere dell’assenza.
È tutto, appuntamento al prossimo giovedì :)
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Grazie dello riflessione, tuttavia ritengo che la parola attivismo implichi impegno, dedizione e sacrificio. Categorie che non si applicano ai pigiatori seriali, convinti di essere uniti dal Signore, che non informano, non discutono, non argomentano semplicemente hanno la pretesa di dirti cosa è giusto e cosa sbagliato, e se non sei d'accordo sei feccia. Di 1000 post sul referendum 950 contenevano slogan ridicoli ("quando ti licenzieranno ricordarti di essere andato al mare") autocelebrazioni (" eccomi al seggio che eroe, non capisco perché non sono Cavaliere della Repubblica"), informazioni parziali o del tutto inesatte o retorica da discorso di Capodanno. Il tutto sempre accompagnato da un fastidioso senso di superiorità. Post con informazioni corrette sui quesiti, che stimolassero una riflessione, con contenuti validi.... pochissimi. Di questo attivismo che mi sembra un disturbo narcisistico della personalità onestamente farei a meno e penso che non sia solo inutile, ma anche dannoso, allontanando dai temi, polarizzando il dibattito, diseducando dalla conversazione. Di questi "attivisti" ne ho piene le tasche, e penso contribuiscano a rendere social e società peggiori e tossici. Abbiamo bisogno di migliori domande, di educazione e di confronto, non di continue risposte saccenti e dimostrazioni di superiorità morale e patenti di giusto/sbagliato. Ma purtroppo la materia prima è questa. Per me è importante avere rispetto per le parole. Attivismo applicato a questa categoria, no grazie.
Resto convinto che l’attivismo digitale, se non radicato in una dimensione fisica, difficilmente può produrre trasformazioni sociali concrete e durature. La politologia ha ampiamente analizzato il fenomeno (Morozov, Tufecki sono i primi che mi vengono in testa).
Senza un ancoraggio territoriale, una progettualità condivisa e una dimensione incarnata dell’impegno politico, l’attivismo digitale rischia di rimanere un’eco in un flusso assordante di informazioni.
Anzi Morozov addirittura sostiene che la performance dell’attivismo digitale spenga l’impulso politico.