Le TikToker si comprano casa e la gente si incazza
Viaggio nel mondo del "duro lavoro", del pretty privilege e del "potevo farlo anche io".
In questi giorni se n’è parlato tanto: le TikToker che comprano casa.
Contesto: due influencer, Emily Pallini e Carlotta Fiasella, rispettivamente 1.1 milioni e 750mila follower su Instagram, nelle ultime settimane hanno annunciato sui loro profili di essersi comprate casa a Milano.
Manco a dirlo, nei commenti è arrivato subito il popolo indignato:
“Perché non ho fatto anche io due balletti durante la pandemia?”
“Io a stento posso comprare il tonno Rio Mare!”
“E senza i social dove vivresti ora?”
Sono commenti che oscillano tra ironia e amarezza ma che, a guardarli meglio, non nascono direttamente da un reale rancore.
Dal mio punto di vista, infatti, siamo di fronte a una grandissima dissonanza culturale.
Detta più semplicemente: stiamo assistendo a un conflitto tra “culture diverse”, basate su valori che risultano incompatibili tra loro.
Per capire di cosa sto parlando, dobbiamo fare un passo indietro.
Siamo cresciuti con l’idea che il successo nella vita passi necessariamente dal “duro lavoro”.
Questo duro lavoro è sempre stato strutturato e riconoscibile: studi, lavori, guadagni, e a un certo punto arrivi solitamente da qualche parte.
È un modello che ha sempre funzionato (almeno per una parte della popolazione, in un determinato momento storico) e si è radicato così profondamente nella nostra cultura che, da essere una regola economica, un po’ alla volta è diventato anche una regola morale.
Se segui quel “duro percorso” vieni percepito come serio e giusto, come una persona che ha fatto tutto per bene e che si merita ciò che ha raggiunto.
Se invece lo devii e adotti un percorso alternativo, verrai visto come qualcuno che ha infranto le regole. E che quindi ha imbrogliato.
Ecco spiegato perché, di fronte a giovani che sembrano ottenere tutto saltando quei passaggi su cui abbiamo fondato la nostra morale, non solo proviamo invidia, ma anche smarrimento.
Non è infatti la casa in sé a generare disagio, né il fatto che siano state proprio loro a comprarla, ma tutto il significato che attribuiamo al gesto: perché una persona che ha “imbrogliato” ha ottenuto questi risultati, mentre io che sono stato “onesto” sto faticando e magari fallendo?
È proprio qui, davanti a questo cambio di narrazione, che scatta il trigger: ci si rende infatti conto che il problema sta molto più a monte, e che a essere sbagliato è il sistema, che l’ascensore sociale è rotto, che stiamo ancora cercando di usare mappe vecchie in un territorio che nel frattempo è cambiato.
Il punto è che ci viene difficile leggere questo nuovo contesto.
Abbiamo interiorizzato talmente tanto l’idea che il successo debba passare attraverso un percorso lineare, fatto di sacrifici visibili e tappe riconoscibili, che oggi un successo arrivato per vie meno prevedibili, più rapide, meno faticose (almeno all’apparenza) rischia di disorientare.
Ed è così che Emily e Carlotta, che a vent’anni si comprano casa grazie ai social, destabilizzano chi sta dall’altra parte, facendogli pensare che sia un lavoro stupido, facile, inutile.
Ma è davvero così?
La risposta che verrebbe da dare è “sì”, vuoi per cinismo o per superficialità. Ma la realtà è più complessa.
Da una parte viene facile puntare il dito sul loro aspetto fisico: sono due ragazze oggettivamente belle e, in una società profondamente visiva, dove l’apparenza non è solo un involucro ma una metrica di performance, quel tipo di bellezza è un vantaggio.
Il “pretty privilege” (ossia il vantaggio di esser belli) funziona nei colloqui, nei rapporti sociali, nelle interazioni quotidiane, e in modo ancora più marcato nell’economia dell’attenzione in cui viviamo. L’algoritmo risponde meglio a ciò che rientra in determinati canoni estetici, e questo è un dato di fatto.
Ma la bellezza da sola chiaramente non basta: se bastasse, ogni ragazza carina avrebbe migliaia di follower. Ma non è così.
È sicuramente un’ottima porta d’ingresso, ma per mantenere l’attenzione delle persone serve costanza, serve la capacità di costruire un racconto coerente, di interpretare i bisogni del pubblico, di posizionarsi in un sistema altamente competitivo. L’estetica può aprire la porta, ma da sola non garantisce nulla.
E quindi l’unica cosa che concedo ai detrattori è che tutto questo non è un “vero lavoro” nell’accezione novecentesca del termine.
Ma è comunque un lavoro, con nuove forme, linguaggi e che soddisfa necessità che una volta erano diverse (o addirittura non c’erano).
Ad aggiungere ulteriore benzina sul fuoco ci sono le classiche frasi lette anche all’inizio: “potevo farlo anche io, mi bastava fare i balletti durante la pandemia”.
È un classico esempio di bias del sopravvissuto: vediamo solo chi ce l’ha fatta, chi fa tanti like “facendo poco”, chi ha community enormi con un apparente sforzo minimo, chi riesce a comprare casa grazie ai social. Tutti gli altri che ci hanno provato ma hanno fallito scompaiono.
Gli algoritmi ci mostrano il successo come un evento inevitabile e lineare, e finiamo così per convincerci che, se loro ci sono riuscite, tutti avrebbero potuto farlo.
Noi quindi ci sentiamo in colpa con noi stessi per aver perso il treno, una frustrazione latente che sfoghiamo verso chi ce l’ha fatta, scrivendo commenti di odio quando qualcuno raggiunge i propri obiettivi.
Il punto è che ignoriamo come funzionano le piattaforme: questo sistema non è nato da solo, siamo noi con i nostri clic a nutrirlo. Se un profilo non ci piace, o non siamo d’accordo con i contenuti e i valori che condivide, se commentiamo e ne parliamo male gli stiamo comunque dando visibilità.
E, alla fine di tutto, non stiamo raggiungendo il nostro “obiettivo”.
Mi ha colpito un post di Auroro Borealo, un cantante che ha dichiarato di aver rimosso da Spotify tutte le sue canzoni dopo aver scoperto che il fondatore della piattaforma ha donato 700 milioni di dollari per la produzione di armi.
Ho detto “Wow! Finalmente una persona che non si limita a fare dichiarazioni, ma fa invece qualcosa di concreto, anche e soprattutto contro il proprio interesse”.
Non ci piace qualcosa? Sta a noi cercare di cambiarla, anche se tendiamo a sottovalutare l’impatto che possiamo avere presi singolarmente.
Di odio online ce n’è anche troppo, e non è sicuramente insultando qualcuno sotto a un post che possiamo ottenere qualcosa. A maggior ragione se le persone in questione sono oneste e sono brave a fare il proprio lavoro, anche se quel lavoro non lo capiamo, anche se non è “abbastanza duro” secondo i nostri standard.
“Se la fatica fosse l’unico criterio per valutare il lavoro, l’asino sarebbe il proprietario della stalla” disse qualcuno.
Solo che oggi la fatica non è più un criterio valido e oggettivo.
E, forse, il vero progresso è imparare a riconoscere valore anche dove non siamo stati educati a vederlo.
O, almeno, non lasciare commenti negativi quando ignoriamo tutto un mondo che si nasconde dietro.
Mi sono abbastanza rotto di leggere in continuazione post scritti con l’AI. Il problema però, arrivati a questo punto, è capire quali sono stati scritti da un essere umano.
Un articolo di Fast Company dà alcune indicazioni su come sgamare se qualcosa è stato scritto da AI oppure no, e mi ci rivedo molto in questi parametri. Qui il pezzo.
Sto caldo non lo sopporto più. Ci sentiamo il prossimo giovedì :)
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Davvero complimenti hai centrato il punto focale di questo cambiamento epocale che stiamo vivendo soprattutto in termini di comunicazione. Non sapevo di Spotify e di ciò che ha fatto Auroro, che stimo e seguo perché abbiamo amici in comune. Grazie per il post ed hai anche ragione sul fatto che … “fa caldo” 😊