Mi sono imbattuto in un video che mi ha lasciato addosso una strana inquietudine.
Mostrava dei bambini molto piccoli, immersi in quel caos emotivo tipico dei primi mesi di vita: piangevano, si agitavano, erano infastiditi.
Poi, all’improvviso, si sente il suono di un jingle e la voce allegra di una donna, e quei visi contratti si trasformano magicamente in sorrisi radiosi.
La voce era di Ms. Rachel, una content creator diventata regina indiscussa del mondo YouTube Kids, con un canale da oltre 15 milioni di iscritti.
I suoi video sono pensati appositamente per i più piccoli: hanno colori vivaci, una voce rassicurante, delle parole semplici, una gestualità esagerata, delle canzoncine ipnotiche.
Eppure, per quanto il tutto possa apparire adorabile ed “educativo”, vedere i bambini che al solo suono del jingle improvvisamente cambiavano umore mi ha lasciato un retrogusto piuttosto strano.
Quelli del video non sembravano bambini che si stavano semplicemente divertendo, ma piccoli organismi che rispondevano a uno stimolo con una reazione emotiva automatica, come se quella voce e quella musica fossero diventate un bottone magico da premere per ottenere un certo tipo di risposta.
Una risposta che, col tempo, si sta configurando in loro come un’abitudine profonda, un’associazione tra quel preciso input e un senso di sollievo, attenzione, benessere.
È l’equivalente emotivo della salivazione del cane di Pavlov, che associava al suono del campanello l’idea di “mangiare”, ma applicato a creature che non sanno ancora distinguere tra la voce della madre e quella di uno schermo.
Ecco il punto centrale: quando un bambino si calma e sorride non perché è stato cullato, guardato, accolto, ma perché ha sentito un audio riprodotto da un algoritmo, non siamo più davanti a una semplice forma di intrattenimento, ma a un principio di dipendenza emotiva.
In questo contesto, giorno dopo giorno il bambino impara a regolare il proprio stato interno affidandosi a una fonte esterna, digitalizzata e priva di relazione reale.
Le implicazioni, come puoi immaginare, sono profonde ed estremamente pericolose.
Un bambino che si abitua a questo tipo di interazione non solo riduce la propria esposizione a esperienze relazionali vere, fatte di attese e di imperfezioni, ma si abitua anche a un tipo di stimolo veloce, immediato e gratificante.
Basta un click e parte la voce giusta, con la musichetta giusta, nella tonalità giusta, e tutto si sistema.
Da una parte è l’anti-frustrazione perfetta, ma guardando più a fondo è anche l’anti-apprendimento.
La noia, la frustrazione, il non sapere cosa fare, sono ingredienti fondamentali dello sviluppo, sono ciò che spinge i bambini a inventare, esplorare, chiedere, arrabbiarsi, insistere.
Sono fatiche che servono a costruire la capacità di stare nel mondo.
Se vengono eliminate troppo presto e sostituite da un contenuto che riempie ogni spazio vuoto, il rischio è di formare menti che faticano a tollerare gli attimi di silenzio, che cercano compulsivamente nuovi stimoli, che non riescono a stare nel qui e ora perché il qui e ora è troppo lento.
E proprio in questa dinamica si inserisce un altro aspetto, ancora più inquietante: la formazione precoce di relazioni parasociali.
Le relazioni parasociali sono legami affettivi unilaterali, in cui una persona sviluppa un senso di intimità, fiducia e connessione verso una figura pubblica, che però non conosce minimamente il suo interlocutore.
Sono in pratica quelle relazioni che ci fanno dire “sento di conoscerlo” parlando di un personaggio televisivo, un influencer, un creator.
La chiave sta nel fatto che questi personaggi, pur non essendo presenti nella vita reale dell’utente, sono progettati per apparire autentici, vicini, empatici, creando così l’illusione di un rapporto personale.
Vedi tutti i giorni le storie di qualcuno? Ti sembra di conoscerlo… solo che lui non conosce te.
In quanti per un certo periodo si sentivano “parte” della famiglia Ferragnez, grazie a un’esposizione continua al loro universo?
Normalmente, queste relazioni emergono nell’adolescenza o in età adulta, quando la mente è già capace di distinguere tra realtà e rappresentazione. Ma nel video in questione stiamo assistendo alla creazione di relazioni parasociali nei bambini.
Guardano Ms. Rachel ogni giorno (o rimanendo in Italia i Me contro Te per esempio), ascoltano la sua voce, seguono i suoi occhi puntati in camera come se li stesse davvero guardando, e dentro di loro cominciano a riconoscere quella figura come familiare. Ma non lo è. Non può esserlo.
Ms. Rachel non li conosce, non sa come si chiamano, non sa cosa provano. Eppure, nella mente del bambino, quella differenza non esiste.
E così, lentamente, il bambino impara che è più facile ricevere attenzioni da uno schermo che da un adulto reale.
Il problema non è chiaramente il bambino che si diverte, né tanto meno il programma in sé, che nasce con intenti educativi, è ben costruito, ha un linguaggio accessibile e rassicurante. La questione è più sottile, e riguarda ciò che accade a livello relazionale.
Perché è nei primi mesi del bambino, nei momenti di pianto, di disagio, di richiesta implicita di attenzione, che si struttura la percezione di cosa significhi essere visti e accolti. Ed è proprio lì che il contenuto video rischia di diventare un rimpiazzo comodo, con tutto il carico di conseguenze che questo comporta nel lungo periodo.
Ciò che conta, allora, non è quanto tempo questi bambini passano davanti a uno schermo, ma cosa imparano a cercare in quello schermo, quanto lo assimilano come parte del loro modo di stare al mondo, quanto questo interferisce con la costruzione di esperienze relazionali reali.
Il digitale chiaramente non è “il male” in sé, ma spesso, in assenza di alternative, può diventare una scorciatoia troppo comoda per evadere dalla realtà.
E, se lo si impara già da bambini, le conseguenze poi non possono che essere catastrofiche.
In che modo i social media possono essere usati per costruire un culto della personalità che trasforma un leader politico in una vera e propria divinità?
A pranzo guardatevi il video di Nova Lectio che racconta la storia di Ibrahim Traoré, il presidente del Burkina Faso. Qui il video.
L'hemline index è una teoria (o meglio, un’ipotesi) che suggerisce che la lunghezza delle gonne possa predire l'andamento dell'economia.
Ce ne parla un carosello su TikTok, del perché in tempi di crisi le gonne siano tendenzialmente più lunghe e durante la crescita economica siano più corte.
Ci sentiamo come sempre il prossimo giovedì :)
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Ho un bimbo di quasi due anni. Va al nido, lo porto al parchetto, cerco di stimolarlo con giochi, musica, libri adatti alla sia età. Purtroppo ci sono circostanze in cui accendergli un po'di TV con programmi tipo cartoni, George curioso, o canzoni come Lucilla su youtube, è questione di sopravvivenza.Quando la casa è un disastro e il bimbo ti segue in continuazione, e non riesci a fare più cose contemporaneamente e non c'è nessuno che può tenerlo. Quando il bimbo è malato (e frequentando un nido capita spesso) e devi in contemporanea lavorare in smartworking. Smartphone e Tablet assolutamente non glieli do, ma in certe circostanze, lo confesso, non trovo alternative alla TV.
Ciò che conta, allora, non è quanto tempo questi bambini passano davanti a uno schermo, ma "cosa, GLI ADULTI, GLI FANNO IMPARARE a cercare in quello schermo":
Perché, alla fine della fiera, non è "colpa" dei bambini se imboccano la strada del digitale e della relazione fittizia (unilaterale) e mi fermo qui...