Sono tempi duri per gli hater sui social
Cecilia Sala pubblica nomi e cognomi dei suoi hater, ma è giusto?
Ci sono confini che tendono a essere molto sottili.
Dove finisce la libertà d’espressione e comincia l’insulto? E dalla critica legittima all’attacco personale? Difesa o vendetta?
Spesso, tracciare una linea netta in mezzo a queste tematiche delicate non è semplice, e ci ho ragionato proprio analizzando il recente caso che ha coinvolto la giornalista Cecilia Sala.
Ma partiamo dai fatti: alcuni utenti, nascosti dietro account anonimi su Twitter, hanno insinuato che Cecilia Sala fosse “un agente straniero per conto di Israele o dell’Iran” (già, entrambi, a momenti alterni, e già qua fa ridere).
Per chi lavora nel giornalismo internazionale, in particolare in aree sensibili come il Medio Oriente, questo tipo di etichetta può avere conseguenze concrete soprattutto quando si è in spedizione sul posto (ricordiamo che a fine 2024 è stata incarcerata in Iran per circa 20 giorni).
La reazione di Cecilia Sala è stata forte: ha infatti reso pubbliche le identità dei due utenti responsabili di queste insinuazioni, indicandone nome, cognome, data e luogo di nascita (gli username fanno quasi ridere, “Gennarino ‘o Mossad” e “Toni Baruch”).
E arriviamo quindi al tema di oggi: alcuni spettatori hanno applaudito il gesto come un atto di coraggio e trasparenza, ma molti altri lo hanno definito una forma di violazione della privacy che apre scenari preoccupanti per chiunque interagisca in rete.
Ed è qui che si entra nel famoso confine sottile.
Per capire le implicazioni dobbiamo prima di tutto approfondire il fenomeno del “doxxing”.
Il termine doxxing deriva da “dropping dox”, ossia “rilasciare documenti”: è una pratica nata negli ambienti hacker degli anni ’90 per identificare e colpire i rivali diffondendo le loro informazioni personali.
Oggi il termine si riferisce alla pubblicazione non autorizzata di dati sensibili o identificativi (come nomi, indirizzi, luoghi di lavoro, numeri di telefono) con l’intento di intimidire, umiliare o esporre una persona a potenziali ritorsioni.
A differenza di una normale discussione, il doxxing è una forma di attacco asimmetrico: chi lo subisce si ritrova improvvisamente “smascherato” davanti a un pubblico potenzialmente ostile, spesso senza strumenti concreti per difendersi.
Uno dei più famosi casi di doxxing è quello di Ashley Madison, un sito per incontri extraconiugali: nel 2015 un gruppo di hacker rubò i dati sensibili di 37 milioni di utenti.
Dopo averli resi pubblici, le conseguenze furono devastanti: gogna online, ricatti, cause legali e almeno 2 suicidi collegati all’accaduto.
Si è trattato di un attacco che ha mostrato con violenza quanto il rilascio non consensuale di informazioni personali possa trasformarsi in un’arma sociale, capace di distruggere reputazioni, legami familiari, e persino vite.
Il caso di Cecilia Sala chiaramente è molto lontano per contesto e intenzioni, ma presenta una dinamica simile: un’esposizione pubblica, non richiesta, che modifica in maniera irreversibile la percezione sociale di chi ne è bersaglio.
La differenza è che in questo caso non parliamo di un gruppo di criminali informatici, ma di una giornalista che ha deciso di difendersi da accuse pericolose.
E qui sta il nodo più problematico: quanto è lecito colpire chi ci attacca? E in che modo possiamo rispondere, senza cadere nella stessa logica violenta che vorremmo criticare?
Nel diritto penale, la legittima difesa è ammessa solo in presenza di una minaccia attuale e proporzionata. Traslando il concetto al digitale possiamo dire che è legittimo proteggersi da diffamazione, ma lo è altrettanto rispondere con un’esposizione pubblica che mette a rischio chi ci ha attaccato?
In rete, gli equilibri sono fragili: basta poco perché si attivi un meccanismo collettivo di “punizione sociale” che poi nessuno può più controllare. È un effetto domino dove ogni singolo utente si sente giustificato nel colpire, deridere, minacciare, semplicemente perché qualcun altro ha “aperto le danze”.
Sono stati numerosi i casi di influencer che hanno pubblicato screen con nomi e cognomi di utenti che in chat erano violenti verbalmente nei loro confronti, facendo scatenare la community contro questi individui.
Il doxxing è pericoloso perché, in un ambiente polarizzato come i social, spesso ha un peso sproporzionato rispetto alla “colpa” reale dell’individuo. È una pena senza processo, senza contraddittorio, senza possibilità di difesa.
La questione centrale quindi non è solo giuridica, ma etica.
Vogliamo davvero normalizzare l’idea che chi ha più visibilità possa permettersi di decidere chi smascherare e come? E soprattutto: vogliamo davvero vivere in una rete dove, per ogni attacco, esista il rischio di una ritorsione identitaria?
Perché attenzione: oggi può succedere a un provocatore con un nome da meme, domani a un attivista, dopodomani a chiunque abbia detto qualcosa di scomodo, sbagliato o anche solo fraintendibile. Il precedente che si crea in questo caso è potente: se hai torto o sei sgradevole, la tua identità può essere rivelata.
E questo potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui interagiamo online: non più con l’idea di confrontarci, ma con il timore costante di essere esposti.
E allora, anche nel caso di Cecilia Sala, per quanto comprensibile sia la sua rabbia e la sua reazione, dobbiamo chiederci: è giusto difendere la sua scelta, che magari è più “elegante” nei modi, ma non meno violenta nei risultati?
La verità è che nelle dinamiche digitali non basta avere ragione per essere dalla parte giusta.
Conta come si sceglie di rispondere, soprattutto quando si ha visibilità e influenza.
Perché se alla violenza verbale si risponde con l’esposizione pubblica, si rischia di trasformare la legittima difesa in una nuova forma di abuso e, a quel punto, non stiamo più arginando il problema, ma ne stiamo diventando parte.
Una volta andai con un amico in gelateria e lui ordinò un cono alla liquirizia, nonostante avesse sempre odiato quel gusto.
Incuriosito, gli chiesi perché l’avesse fatto, e lui mi rispose: “tutti prendono cioccolato, crema o pistacchio, ma mi sembrano dei gusti troppo scontati e facili”.
Ok, ammetto che questa storia non è mai accaduta, ma è l’esempio perfetto per raccontare una dinamica molto più frequente.
Dentro di noi c’è una forza invisibile ma potentissima che ci spinge a voler dimostrare a tutti i costi che siamo diversi, originali, impossibili da incasellare.
Questa forza, che in alcuni casi chiamiamo personalità, in altri si trasforma in pura e semplice opposizione. Manco a dirlo, sui social media trova un terreno estremamente fertile, dato che tutto è esposizione, paragone, ripetizione.
Senza quasi rendercene conto, ogni scelta che prendiamo è potenzialmente una dichiarazione di appartenenza o, peggio ancora, di conformità.
È qui che, spesso in maniera impulsiva, scatta il rifiuto: non scelgo ciò che mi piace davvero, ma ciò che non piace agli altri. Non ciò che desidero, ma ciò che va contro il pensiero comune.
Un gesto minuscolo, come scegliere la liquirizia, diventa un modo di dire “non sarò come voi”.
Lo aveva intuito Dostoevskij, quando descrisse un uomo che preferisce andare contro il proprio interesse pur di non sentirsi ingabbiato in una logica predefinita, pur di dimostrare che la propria volontà conta più della felicità, della pace, della coerenza.
Questa logica, così irrazionale e affascinante, oggi la vediamo ovunque: nei commenti che sminuiscono un film solo perché è piaciuto a troppa gente, nei post complottisti che rifiutano prove scientifiche solo perché “non mi fido”, nei video in cui qualcuno si vanta di vivere senza telefono, come se fosse una forma di superiorità morale.
Tutto ruota attorno a un desiderio antico: essere liberi.
Ma paradossalmente, nella rincorsa a essere unici, diversi, indipendenti, finiamo per essere prevedibili nella nostra ribellione, come adolescenti che si vestono tutti uguali per dimostrare di essere alternativi.
Scegliere l’opposto per principio è, quindi, solo l’altra faccia del conformismo.
E allora forse, in tutto questo, l’unico modo per essere veramente liberi è smettere di pensare a cosa pensano gli altri.
Scattiamo foto per ricordare, ma alla fine tendiamo a ricordare solo ciò che fotografiamo.
Un articolo di National Geographic racconta come nell’era digitale, la memoria non è più solo nella nostra testa, ma anche (e soprattutto) nella galleria del nostro smartphone. Documentare tutto, però, può anche indebolire la nostra memoria. Qui il pezzo in inglese.
Il body-positivity movement è morto.
Su TikTok infatti stanno diventando virali trend che promuovono la magrezza estrema. Ne parla The Atlantic qui.
E infine, ti salvo la pausa pranzo: Yotobi racconta la storia di Daniele Luttazzi, comico esploso col web e poi distrutto dallo stesso internet che tanto l’aveva portato in alto.
30 minuti di visione consigliata.
Per oggi è tutto, fatemi sapere che ne pensate della newsletter se vi va!
Noi ci risentiamo come sempre il prossimo giovedì :)
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Mi permetto di esprimere la mia opinione in merito al fatto che rivelare il nome di chi scrive post sotto pseudonimi sia una violazione della privacy.
Chi desidera la privacy basta che non scriva sui social: se lo fa deve metterci la faccia e non magari insultare o scrivere fake news coprendosi con un nickname.
Questi a mio giudizio dovrebbe essere fatto per legge e stiamo sicuri che almeno la metà delle stronzate che
leggiamo specie nei commenti sparirebbero d’incanto
D’altra parte non è la stessa legge che impedisce di tener conto delle lettere anonime?
Penso che il problema sia grosso e non facilmente risolvibile: ha a che fare, in fondo, con la classica e vecchissima questione della legittimità dell'uso della forza. Ci dotiamo degli strumenti del diritto e di corpi di polizia, al netto degli abusi degli uni e degli altri, proprio per evitare la guerra per bande e l'arbitrio. Per lo stesso motivo cerchiamo di costruire società in cui i poteri siano indipendenti, bilanciati e capaci di controllarsi a vicenda. La socialità online è relativamente recente e probabilmente la sua regolamentazione è ancora in fieri, ma è urgente, perché la polarizzazione estrema che promuove finisce col far esplodere tensioni e conflitti che poi si riversano anche fuori. Poi umanamente capisco il desiderio di rivalsa immediata contro lo stronzo calunniatore, eh. Però l'idea di farsi giustizia da sé mi fa più paura.